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giovedì 20 dicembre 2012

Nel film “Tutto tutto niente niente” il regista Giulio Manfredonia descrive la realtà paradossale e volgare dell’Italia dei nostri giorni



Titolo: Tutto tutto niente niente
Regia: Giulio Manfredonia
Soggetto e sceneggiatura: Antonio Albanese, Piero Guerriera
Produzione: Italia 2012
Cast: Antonio Albanese, Lorenza Indovina, Lunetta Savino, Fabrizio Bentivoglio, Paolo Villaggio, Nicola Rignanese, Viviana Strambelli, Davide Giordano, […]


Dopo il grande successo di “Qualunquemente" (2011), il regista Giulio Manfredonia dirige ancora una volta in questo film “Tutto tutto niente niente”, Antonio Albanese, grande attore versatile, che vi interpreta tre personaggi, filibustieri irrazionali, orribili maschere da tragedia greca che sembrano paradossali, che appaiono immaginarie, fantasiose direi, ma che sono purtroppo particolarmente tangibilmente reali. Il più famoso dei tre e il più conosciuto è il calabrese colluso con la mafia Cetto La Qualunque, poi c’è il nordico secessionista/razzista Rodolfo Favaretto e, infine, il mistico Frengo Stoppato. Il primo, il mascolino che respinge solo per "ignoranza" una “escort” pensando che sia diversa dalle sue preferite e consuete “troione” e che cade in depressione per aver provato per la prima volta una "mancanza" sessuale della quale non si capacita, generata da un rapporto inconsapevole con un transessuale di cui tocca il lungo pene. E della cui inconsapevole “toccatina” vuole trovare una giustificazione chiedendo e chiedendosi se esista un clitoride lungo 22 centimetri. Il secondo che, con la sua eccelsa arroganza moralista e disumana, sfrutta gli immigrati, prepara i suoi accoliti alla guerra secessionista aspirando di unire il Nord-Est dell’Italia con l’Austria, e, infine, c’è il terzo personaggio, un balordo che si ritiene un uomo pio e per questo, anche dietro le insistenze convinte della madre (Lunetta Savino), vuole farsi beatificare da vivo (sic!) cercando, per raggiungere questo scopo, di proporre al papa, in seguito ad una sua originale interpretazione del vangelo, la riforma della Chiesa. Attorno a questi personaggi, tuttavia, ne ruotano molti altri, come il buffo vescovo (Teco Celio), o come il dispotico sottosegretario volutamente ingessato nel suo modo di fare e di essere (Fabrizio Bentivoglio) o come il pasciuto Presidente del Consiglio (Paolo Villaggio), che impera silente e domina tutti dal suo alto trono. 
Il film è una satira tragicomica, che va oltre la satira, dei politici italiani corrotti, arroganti, spudorati e anche volgari, soprattutto folli, e che manifesta in modo chiaro e inequivocabile il loro carattere trash. Un film direi che mostra una ricchezza figurativa surreale, colorata, piena di musica che contrasta con il grigio squallore, la povertà intellettuale, l’arroganza populista e la sordidezza decadente di una realtà vissuta che dà anche fastidio. Oserei dire che per queste peculiarità, il film mi fa ritornare con la mente al Satyricon (1969) di Fellini. Un film smitizzante, aspro, mordace, i cui personaggi sono presentati efficacemente come mostri che vanno oltre il ridicolo, oltre il caricaturale, oltre il reale che invece è reale, tanto reale che lo spettatore non riesce a ridere neppure per la battuta più comica che possa esserci nel film. Seguire il film diventa faticoso forse perché lo spettatore conscio della fluidità del precedente “Qualunquemente” si aspetta la stessa scioltezza e un’identica comicità, dato che ci sono lo stesso regista a dirigere e lo stesso attore a plurinterpretare. Comunque un film da vedere non solo per quello che dice ma per la bravura eccelsa dell’istrionesco Albanese e per l'originalità del contenuto.


giovedì 13 dicembre 2012

“Ruby Sparks” è un bel film con una sottile vena romantica dove l’immaginazione gioca con la realtà

Titolo: Ruby Sparks
Regia: Valerie Faris e Jonathan Dayton
Sceneggiatura: Zoe Kazan
Produzione: USA 2012
Cast: Paul Dano, Zoe Kazan, Annette Bening, Antonio Banderas, Chris Messina, Elliott Gould, Deborah Ann Woll, Alia Shawkat, Aasif Mandvi, […]
La coppia di registi Valerie Faris e Jonathan Dayton con la originale sceneggiatura di Zoe Kazan (nipote del grande regista turco Elia Kazan morto a 94 anni, nel 2003) che interpreta una delle protagoniste del film, Ruby, ha forgiato un bel film, originale, singolare, bizzarro e anche divertente. Una commedia che fa sorridere ma al tempo stesso fa pensare perché fa giocare in maniera magnifica, eccelsa direi, l’immaginazione con la realtà, l’astratto con il concreto,  la fantasia con  la ragione. Soprattutto le parole scritte con le azioni. Una commedia dalle tinte forti dove si evidenziano anche i connotati filosofici connessi con quella corrente filosofica chiamata idealista soggettivista, secondo la quale  il mondo esiste solo nella mente dell’uomo e che tutto ciò che governa il mondo altro non è che frutto dell’immaginazione umana. Che cosa è uno scrittore se non un idealista soggettivista che con la forza dell’immaginazione crea tutto ciò che vuole e lo trasporta al lettore che è indotto a crederci? Nel film è Calvin (Paul Dano) il giovane scrittore che gioca con l’immaginazione e commette “un incesto mentale” descrivendo nella sua bozza una donna bella, Ruby Sparks, a cui dà dei connotati ovviamente a lui confacenti - viso stupendo, occhi verdi, capelli rossi, pelle vellutata, simile ad una dea in definitiva, - così vicini alla realtà che riesce a renderla “reale”. Tant’è che ad un certo punto egli di Ruby dice al fratello incredulo Harry : “Lei mi si è presentata da sola, io ho avuto la fortuna di poterla descrivere”. Con Ruby, Calvin convive beatamente, fa l’amore, va a passeggiare, litiga, e così via. La “costruisce” così bene da farla credere "reale" al fratello Harry (Chris Messina), alla cognata Mabel (Alia Shawkat), alla madre Gertrude (Annette Bening) e al suo compagno Mort (Antonio Banderas). È formidabile, interessante e trascinante il gioco che ne deriva tra il creatore Calvin e la sua creatura Ruby. Calvin è stato stimolato inconsapevolmente a scrivere di Ruby,  cioè a forgiare e ad amare una propria creatura, in seguito ad un rapporto sbagliato tra lui e una donna. Dopo avere avuto, infatti, una lunga e coinvolgente relazione amorosa con una bella ragazza, Lila (Deborah Ann Woll), si trova abbandonato, entra in depressione  ed è costretto a ricorrere alle cure analitiche dello psichiatra dottor Rosenthal (Elliott Gould). Non è una metafora dei nostri tempi questa storia, dove ognuno di noi tende ad isolarsi da una società disumana e a crearsi un mondo tutto proprio al fine di dare alla vita un senso? A crearsi un mondo virtuale vivibile e umano? Non è un ritorno al romanticismo? Ottima la recitazione dei due attori protagonisti Paul DanoZoe Kazan, la cui bravura viene messa in risalto soprattutto per la presenza di attori famosi come Annette Bening, Antonio Banderas ed  Elliott Gould.

mercoledì 12 dicembre 2012

<<“Latina vetera” e la sua storia nell’Agro pontino>> di Francesco Giuliano


Viaggiando spesso per motivi di lavoro tra Latina e Roma in treno, è capitato e capita frequentemente anche se involontariamente, dai pendolari che percorrono la linea Napoli-Roma e che casualmente fanno conoscenza tra di loro, sentir dire “io sono napoletano”, “io sono salernitano”, “io sono sezzese”, ecc. ecc.. Ognuna di queste locuzioni indica, ovviamente, il senso di appartenenza ad una città di quel pendolare che la proferisce. Dall’altra parte si sente dire “io sono di Latina”, “io sono nato a Latina” oppure “io abito a Latina”, (raramente “io sono latinense”), modi di dire questi che non denotano appieno un senso di appartenenza. E questo dipende dal fatto che molti abitanti di Latina provengono da quasi tutte le regioni d’Italia e soprattutto dai paesi del monti Lepini. E chi è nato a Latina, nella maggior parte dei casi, ha la storia dei suoi genitori o dei suoi nonni radicata in un’altra regione o in un’altra città d’Italia. Si sente affermare, a proposito, che devono passare ancora molti decenni prima che ogni abitante di Latina possa dire con convinzione e con senso di appartenenza “Io sono latinense”. Come se ogni abitante di Latina si sentisse menomato rispetto a chi provenga da un’altra città, come Napoli, o Salerno, o Sezze, ecc.. Io sono del parere che con una divulgazione adeguata concernente la conoscenza intima e profonda sia del territorio pontino che della sua storia antica più che millenaria, ogni cittadino di Latina potrebbe vantarsi di abitarvi e con grande orgoglio potrebbe affermare “Io sono latinense”. In definitiva, ogni cittadino acquisirebbe quell’”anima” che deriva dal possesso del senso di appartenenza. Basterebbe ritenere che questa città non ha una storia breve (quest’anno è l’80° anniversario della sua fondazione recente), ma un passato, antico di millenni, risalente addirittura a data anteriore alla fondazione di Roma. A pochi chilometri di distanza dal centro di Latina esistono, infatti, i resti di una città, prima latina e poi volsca, che ha “avuto una grande fioritura nel VII e VI secolo a.C., quando era una città grande e ricca…” (B. Heldring – Satricum- una città del Lazio). È la città italica di Satricum risalente al IX secolo a.C..
In località borgo Le Ferriere, a pochi chilometri da Latina, si trovano i resti archeologici di questa città, originariamente chiamata Pometia (cfr. Tito Livio, storico romano vissuto tra il 59 a.C. e il 17 d.C.), - da cui è derivato poi il nome del territorio che oggi è chiamato Agro pontino (da Ager pometinus). La scoperta avvenne casualmente prima dell’ultima bonifica della palude pontina (iniziata nel 1924), esattamente il 24 gennaio del 1896 grazie ad un archeologo francese. Satricum, ubicata sul fiume Astura che in quel tempo era navigabile fino al mare, aveva rapporti commerciali, soprattutto di traffico del vino, con diversi paesi del bacino mediterraneo, Marsiglia, Cartagine, Grecia, Spagna, Egitto, e ciò l’aveva resa grande e opulenta. Questa città, oggi, dovrebbe essere considerata la “Latina antica” o “Latina vetera” con una storia di oltre 2800 anni, perché basava la sua prosperità sullo stesso territorio - il Latium vetus - su cui oggi gravitano gli interessi economici e commerciali della città di Latina moderna. Ciò darebbe ai latinensi un’identità storica peculiare e i loro governanti dovrebbero favorire l’acquisizione di questa convinzione anche per la grande eco nazionale e internazionale non solo economica che ne potrebbe derivare. Basti pensare che Satricum è stata fondata dal popolo italico dei Latini, i quali a loro volta (al di là delle origini mitiche descritte da Tito Livio nella sua opera “Ab urbe condita”) hanno fondato Roma, e la cui lingua - il “Latino” – fu diffusa in tutto il mondo e oggi lingue come il francese, lo spagnolo in particolare, il portoghese, il rumeno oltre all’italiano, sono parlate dalla maggior parte dei popoli della Terra. Ciò sta a significare quando grande sia stato l’impulso del Latium vetus e dei Latini alla storia e allo sviluppo della civiltà dell’uomo. Un grande Territorio, un grande Popolo dunque. E di questo i Latinensi dovrebbero essere orgogliosi. A Satricum vi si trovano i resti del Tempio di Mater Matuta, la dea italica dell’alba e dell’aurora, di cui ne parla il poeta latino Lucrezio Caro (poeta e filosofo epicureo di Pompei, vissuto nel I sec. a.C.) nel “De rerum natura”: “Così ad un’ora fissa Matuta soffonde con la luce rosea/ dell’aurora le rive dell’etere e spande la luce” , ma ne tratta anche il poeta Vincenzo Monti nel suo poemetto “Feroniade” (1784), scritto nel momento dell’avvio dei lavori di bonifica delle paludi pontine intrapresi dal papa Pio VI: “Tra la ferocia del possente Astura,/ l’opima Mucamite, e l’alta Ulubra,/ e la vetusta Satrico, a cui nulla/ il nume valse della dia Matuta./ E per  te cadde, strepitoso Ufente,/ Pomezia, la più ricca e la più bella/”. Il titolo del poemetto deriva dalla ninfa italica Feronia, della quale si trova, ancora oggi, la fonte sull’Appia antica, alle porte di Terracina.
Recentemente, un interessante convegno “Satricum e il Latium vetus” si è tenuto, il 18 novembre 2011 ad Aprilia, dove tra i relatori c’era la prof.ssa dr. Marijke Gnade dell’Archeological Centre della Faculty of Umanities, Universiteit Van Amsterdam, archeologa delle culture pre-Romane nell’Italia Centrale nonché direttore del progetto Satricum. In quell’occasione, la professoressa Gnade fece un’esaustiva e brillante disamina dettagliata e particolarmente coinvolgente, partendo dall’inizio dei lavori condotti da un gruppo di archeologi olandesi, nel 1977, attorno al basamento del Tempio di Mater Matuta, già messo alla luce nel 1896 come già detto. Nel basamento del tempio, costruito in tufo, sono stati scoperti dei lastroni levigati, in uno dei quali compare scritta in latino arcaico una dedica a Poplio Valesio (o Publio Valerio), il presunto fondatore dell’antica Repubblica romana, avvenuta intorno al 509 a.C.. Dopo questa data, e quindi dopo la cacciata dei Tarquini da Roma, sembra che ci sia stata un’offensiva dei popoli limitrofi, i Volsci, che ridimensionarono per un certo tempo l’espansione di Roma e forse crearono il loro baricentro politico proprio in Satricum.
L’8 settembre 2012, presso il castello di borgo Montello di Latina, c’è stato un altro evento eccezionale sull’antica Satricum, straordinariamente raro per il territorio di Latina e, per questo, fenomenale ed emozionante. Di fronte ad un folto pubblico attento e interessato è stata ricostruita e raccontata la giornata di un abitante della città, un tale di nome Mamarcus il giovane, vissuto tra il 500 e il 490 a.C. a Satricum. Di fronte al tempio di Mater Matuta situato nell’acropoli, infatti, è stata trovata la casa di questo abitante e, attraverso i reperti ivi scoperti, è stato possibile ricostruire le sue abitudini e, di conseguenza, quelle degli altri abitanti della città. Il prof. Michelangelo La Rosa, con la collaborazione scientifica della professoressa Gnade e con la proiezione di suggestive fotografie, ha fatto, con ottimi risultati, esplorare dal pubblico presente i luoghi, gli usi e i costumi del tempo, e conoscere come si svolgeva, attraverso la vita di Mamarcus, la giornata di un abitante qualsiasi, dall’alba fino alla sera, differenziando le varie fasi della giornata, alba-giorno-sera.
Questo avvenimento dimostra che a Latina con poche risorse materiali ma con grandi qualità intellettuali e desiderio di sfondare il muro dell’inerzia e del torpore si possa fare Cultura di alto livello, quella Cultura di cui la città è povera, anzi nuda.
A pochi chilometri di distanza da Latina, inoltre, si snoda la “Regina viarum”, la via Appia che collegava Roma a Brindisi e quindi all’Oriente, e che fu costruita da Appio Claudio nel 312 a.C., cioè esattamente 2300 anni fa (e non ieri né ottanta anni orsono!), quando ancora la palude non esisteva. Nei pressi del borgo di Tor Tre Ponti - nome che deriva da Tripontium per il vicinissimo ponte, un tempo a tre luci, e per una torre costruita in epoca medievale; vi si trovano due cippi, uno intestato all’imperatore Nerva (96-98 d.C.) a cavallo del fiume Ninfa e l’altro all’imperatore Costantino (306-337 d.C.), - esiste un ponte romano di epoca traianea (rifatto nel 98 a.C.) sulle acque del fiume Ninfa. Su questo ponte ancora oggi passano auto e mezzi pesanti! Più avanti, sempre sull’Appia, presso il Forum Appii (oggi borgo Faiti), c’è un altro ponte romano sul fiume Cavata ad una sola arcata. Ne parla il poeta latino Orazio (65 – 8 a.C) che nel suo viaggio verso Brindisi durante la primavera del 37 a.C. (libro I, quinta satira) racconta che “Uscito dalla grande Roma… arrivai al Foro Appio brulicante di marinai e di bettolieri imbroglioni” (Egressum magna … Roma… Forum Appii differtum nautis cauponibus atque malignis). Ne parla anche Luca, compagno di Paolo di Tarso condotto a Roma per essere giustiziato, nei suoi “Atti degli Apostoli”: «E così arrivammo a Roma. E da lì i fratelli che avevano sentito delle nostre vicissitudini, ci vennero incontro fino al Foro Appio e alle Tre Taverne. Quando li vide, Paolo ringraziò Dio e… prese coraggio» (At 28,14-15). Dal Forum Appii, 43 miglia da Roma, iniziava la palude pontina formatasi nel II secolo a.C., e si dipartiva un canale, lungo 19 miglia, formato dalle acque del fiume Ninfa. Sia Orazio, nella citata “ quinta satira”, che Strabone (geografo greco vissuto a cavallo tra il I secolo a.C e il I secolo d.C.) nel suo primo libro “Geografia”, ma anche Plinio il vecchio (23 – 79 d. C.) nella “Naturalis Historia”, riferiscono che il canale (l’attuale Linea Pio)  fiancheggiava la via Appia, e per proseguire il viaggio fino a Terracina si utilizzavano delle imbarcazioni trainate da muli che si muovevano sulla strada.
Alle porte di Terracina, sempre rimanendo sulla “Regina viarum” si trova la Fonte, dove sorgeva un tempio dedicato alla dea Feronia (oggi ubicata dentro la proprietà del Mulino Cipolla), nei cui pressi confluiscono i fiumi Ufente e Amaseno. Del tempio non c’è più traccia se non quella di un tratto di mura che sorreggeva la via Appia. Della fonte ne parla ancora il poeta Orazio, sempre nella quinta satira: “O Feronia, con la tua acqua ci laviamo la bocca e le mani. Allora dopo colazione avanziamo per tre miglia e giungiamo sotto Ansure (Terracina) posta sopra a sassi largamente bianchi”(…ora manusque tua lavimus Feronia lympha. milia tum pransi tria repimus atque subimus inpositum saxis late candentibus Anxur)”. Feronia era la dea delle acque e della fertilità, protettrice dei boschi e delle messi, adorata dalle genti italiche. Della dea Feronia ne parla anche Vincenzo Monti nella ricordata “Feroniade”: “I lunghi affanni ed il perduto regno/ di Feronia dirò, diva latina/ che del suo nome fe beata un giorno/ di Saturno la terra./ … Là dove imposto ai biancheggianti sassi/ sulla circea marina Anxuro pende/ e nebulosa il piede aspro gli bagna/ la pomezia palude a cui fan lunga/ le montagne lepine ombra e corona,/ una ninfa già fu delle propinque/ selve leggiadra abitatrice; ed era/ il suo nome Feronia”.
Esistono, poi, a Latina diverse associazioni culturali che organizzano spontaneamente, senza alcun patrocinio, guidati soltanto dalla passione, dal sentimento e dalla voglia di fare dei loro coordinatori, eventi culturalmente eccezionali e altamente qualificati e qualificanti. Mi riferisco a “Salviamo il territorio, difendiamo i territori”, “Nea Paidea”, “Onda”, “Ecomuseo dell’agro pontino”, che si sono prefissati lo scopo di iniziare un’inversione di tendenza che non è solo quella di rendere i cittadini latinensi edotti sulla conoscenza del territorio in cui abitano e sulla relativa storia, ma di fare acquisire loro quel fondamentale valore umano, tutt’ora mancante, qual è il senso di appartenenza.
Tutte le iniziative e le associazioni, citate nel presente articolo, cercano di supplire una grave e seria o insufficiente mancanza di decisioni e azioni culturali adeguate da parte di enti e istituzioni preposti all’uopo, che se attuate potrebbero fare crescere la città di Latina non solo economicamente, ma soprattutto culturalmente, perché dove c’è Cultura c’è anche ricchezza, prosperità e coesione sociale.

giovedì 6 dicembre 2012

“Una famiglia perfetta” di Paolo Genovese è un film dai connotati originali che assume un significato particolare nel contesto sociale


Titolo: Una famiglia perfetta

Regia: Paolo Genovese
Sceneggiatura: Paolo Genovese, Luca Miniero, Marco Alessi
Produzione: Italia, 2012
Cast: Sergio Castellitto, Marco Giallini, Claudia Gerini, Ilaria Occhini, Carolina Crescentini, Eugenia Costantini, Eugenio Franceschini, Francesca Neri, Sergio Fiorentini, Paolo Calabresi, […]

Che direbbe e cosa farebbe un individuo se potesse nella sua vita confezionarsi a proprio piacimento una famiglia? Con tanto di figli, moglie, madre, fratello, cognata che si dovrebbero comportare o meglio dovrebbero recitare secondo un preciso copione? Sarebbe straordinario oppure questa libertà di scelta presenterebbe in ogni caso dei problemi? Ebbene il regista Paolo Genovese si è posto queste domande assieme agli altri sceneggiatori del film, Luca Miniero e Marco Alessi, e ha confezionato, in modo intelligente ed efficace, questo sbalorditivo film “Una famiglia perfetta”. Una commedia originale, divertente, emozionante e, a tratti, anche drammatica, dai lineamenti misurati ed equilibrati, dove gli attori sono attori di questa squinternata famiglia, confezionata ad hoc. Essi devono rispettare pedissequamente e servilmente la sceneggiatura e il suo unico spettatore, Leone (Sergio Castellitto), il padrone di casa che li ha noleggiati. Ciò rende il film veramente interessante e sui generis, a volte anche paradossale, perché, da una parte, fa giocare, come in una partita a ping pong, la realtà con la finzione, in modo tale da disorientare lo spettatore che, a un certo punto, non sa dove inizia l’una e dove finisce l’altra. E perché, dall’altra parte, mette in evidenza il grande disagio degli attori che per necessità di lavorare e di vivere, a volte vedono calpestata la loro dignità personale. Non è un caso che per contrastare  questa umiliazione nonna Rosa (Ilaria Occhini) crea un fuori programma che lascia senza fiato non solo gli spettatori ma gli stessi attori. Per un imprevisto, infatti, quando entra in scena un’altra spettatrice, la bella Alicia (Francesca Neri), le circostanze che le si presentano la disorientano e la frastornano. Il film è ambientato nella verde Umbria, precisamente nella suggestiva città di Todi, che fa da cameo a questo bel film rendendolo più prezioso. Il film è tratto dal romanzo spagnolo  Familia” (1996) di Fernando León de Aranoa. Tra gli attori tutti bravi,spiccano Sergio Castellitto ovviamente, Ilaria Occhini, la mediterranea Claudia Gerini e i giovanissimi e spumeggianti Eugenia Costantini (Luna) e Eugenio Franceschini (Pietro).

giovedì 22 novembre 2012

Con il film “Amour” il regista Haneke smonta con la sua grande sagacia l’ipocrisia e il cinismo della società ben pensante.


Titolo: Amour

Regia: Michael Haneke

Sceneggiatura: Michael Haneke

Produzione: Francia, Germania, Austria, 2012

Cast: Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva, Isabelle Huppert, Rita Blanco, William Shimell, […]

Michael Haneke è considerato uno dei più grandi registi viventi a livello mondiale, basta ricordare i suoi film più importanti come il film “La pianista” (2001) con Isabelle Huppert, premiato a Cannes con il Gran premio della giuria, o come il suo penultimo “Il nastro bianco” (2009) con il quale si aggiudicò  La Palma d’oro sempre al festival di Cannes, che ha riottenuto anche con questo film Amour (2012) al Festival di Cannes 2012.

Haneke è un regista particolare, sottile, intelligente, controcorrente che, sapendo usare la macchina da presa, crea con “Amour” un’opera dai connotati eccezionali sia per il suo contenuto attualissimo, quello dell’eutanasia, sia per aver saputo anche questa volta dirigere perfettamente due mostri sacri del cinema francese, Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva. Il primo veste i panni di Georges e la seconda quelli di Anne, la moglie di Georges. Georges e Anne, bravi musicisti ambedue, ormai in pensione, trascorrono una vita serena fino a quando Anne rimane paralizzata su metà del corpo.  A questo punto il film si fa sicuramente triste, molto duro, acerbo, doloroso, aspro, crudo, realistico, pungente, schietto, e mette in evidenza come la vecchiaia sia qualcosa di brutto, che umilia la dignità umana, che rende precaria ogni cosa, che isola dal mondo, dalla società, dagli amici, da tutti, anche dalla figlia Eva (Isabelle Huppert) che essendo giovane pensa che alla vecchiaia ci debba essere rimedio. Non si può capire se non ci si immedesima o non si vive in quello stato di salute precaria in cui si perde l’intelletto, e i sentimenti si frantumano come roccia al vento, pian piano. Un film che lascia strascichi psicologici allo spettatore per la sua irruenza e che non lo lascia indifferente anche perché è un film basato sull’amore di un uomo per la sua donna di una vita intera, di un marito per la moglie, di un amante per l’amata. Oserei dire sull’amore perfetto! L’amore che si coglie in tutte le manifestazioni affettive che Georges rivolge alla moglie Anne, l’amore che sorprende nelle tenerezze che le manifesta, nell’aiuto continuo che le dà nel farla alzare dal letto o negli esercizi fisioterapici o nel farla muovere per casa, nel farla sedere o alzare dalla sedia, nel cibarla, nell’accudirla in tutti i movimenti insomma. Lo stesso amore si manifesta quando Georges licenzia un’infermiera che per un giorno di lavoro gli costa 800 euro come se niente fosse e alla quale dice “Spero che un giorno qualcuno tratti lei come lei tratta i suoi pazienti... e che lei non abbia nessun mezzo per difendersi". L’amore che lotta contro la malattia che progredisce gradualmente senza alcun rimedio e senza una prospettiva di miglioramento.  Un film dove si coglie anche una vena romantica, quella stessa traccia che si evince dalla poesia “Amore e morte” di Giacomo Leopardi che ad un certo punto così recita “… Quando il travaglio amoroso / è giunto al culmine della sofferenza,/ allora il corpo fragile cede/ alle terribili sofferenze,/ che la Morte prevale/…”.

Il film in sostanza è un dialogo a due, non solo verbale, ma soprattutto fatto di gesti, di sorrisi, di affetti, tra Georges e Anne, cioè tra Jean-Louis Trintignant, - attore abile e bravo divenuto famoso negli anni sessanta con diversi film: “Il sorpasso” (1962) di Dino Risi, “Un uomo, una donna” (1966) di Claude Lelouch  e “Z- L’orgia del potere” (1969) di Costas- Gavras con il quale ebbe il Premio di migliore attore al Festival di Cannes 1969, - e l’ormai sfiorita ma pur sempre affascinante Emmanuelle Riva della quale ricordiamo in ordine cronologico l’interpretazione nel film “Kapò” (1960) di  Gillo Pontecorvo, e nello stesso anno in “Adua e le compagne” di Pietrangeli e ancora nel film di Marco Bellocchio “Gli occhi, la bocca" (1982).

giovedì 15 novembre 2012

Con il film “Venuto al mondo” questa volta Castellitto mette a confronto l’amore con la violenza.


Titolo: Venuto al mondo
Regia: Sergio Castellitto
Soggetto: Margaret Mazzantini
Sceneggiatura: Margaret Mazzantini, Sergio Castellitto
Musica: Eduardo Cruz
Produzione: Italia, 2012

Cast: Penelope Cruz,  Emile Hirsch, Pietro Castellitto, Adnan Haskovic,  Saadet Aksoy, Luca De Filippo, Brando Djuric, Jane Birkin, Mira Furlan, Isabelle Adriani, Sergio Castellitto, […]

 

Sergio Castellitto, bravo attore,  diventato famoso per “L’uomo delle stelle” (1996) di  Giuseppe Tornatore, che gli valse il premio Nastro d’argento 1996 come migliore attore, ha interpretato film sempre di un certo spessore  tra cui “L’ultimo bacio” (2000) di Gabriele Muccino,  Concorrenza sleale” (2001) di Ettore Scola, “L’ora di religione” (2002) di Marco Bellocchio che gli comportò  il conferimento di un altro Nastro d’argento 2002 come migliore attore. In un certo momento, forse spinto dalla compagna, la scrittrice Margaret Mazzantini, Castellitto decide di fare il regista, e dirige dei film un po’ deludenti come quello di esordio “Libero Burro” (1999) che si rivelò un fiasco, il discutibile  Non ti muovere” (2004) con Penelope Cruz e poi, nel 2010 l’insoddisfacente “La bellezza del somaro”, film questi ultimi due il cui soggetto è stato tratto dai libri scritti dalla moglie.
Dall’omonimo romanzo scritto dalla moglie deriva anche quest’ultimo film “Venuto al mondo” che Castellitto, mostrando, a differenza dei precedenti , il raggiungimento di una certa maturità di regista, dirige  in modo complesso ma efficace e suggestivo. Mette  in campo, infatti, degli stratagemmi, cioè dei colpi di scena astuti che coinvolgono emotivamente lo spettatore disorientandolo adeguatamente, ma che non compromettono però la bellezza del film che tratta fondamentalmente la storia di due donne passionali, belle sia nell’animo che esteriormente. L’una, Gemma (Penelope Cruz), una bella donna emancipata che, recatasi in Bosnia, prima del conflitto cruento, conosce un giovane fotografo Diego (Emile Hirsch) gioioso, spigliato, divertente, amante della vita e della bellezza. Ella viene travolta sfrenatamente dalla passione per Diego da cui vuole un figlio, “un lucchetto di carne” che lo leghi a sé per tutta la vita e, in questo turbinio fervido, vivace, intenso, brillante,  scopre di non essere  fertile, cioè che non può avere figli. Un dramma fortemente sconvolgente per un donna! Cosa ci sia di più brutto, di più rovinoso, di più sofferto, di più deleterio per una donna che è stata progettata per dare la vita e per amare, Castellitto riesce egregiamente a metterla in risalto.  L’altra, Aska (Saadet Aksoy), una bella donna, affascinante, sensuale, che ama la musica e cantare, fa infatuare di sé Diego allontanandolo anche se parzialmente da Gemma. Da questo momento in poi si instaura un rapporto a tre, Gemma, Diego e Aska, molto complicato e tormentato da cui deriva la proposta di Gemma a Diego (a cui è stata negata dalla legislazione italiana la richiesta di adozione di un figlio) di fare un figlio accoppiandosi con Aska. L’amplesso avviene con la guerra già in atto, in un contesto di violenza così inaudita e priva di senso e di senno tant’è che il medico (Branko Djiuric) che visita Aska, rimasta incinta, di vergognarsi “di appartenere alla razza umana”. Nascerà Pietro (Pietro Castellitto), un figlio della violenza? La risposta forse è insita nella frase pronunciata da Gemma: “i figli si vedono dai padri” e Pietro per il carattere che mostra da grande non può che assomigliare al padre Diego! Gemma, felice, per avere ottenuto il neonato che porta con sé in Italia, a Roma, lascia nell’infelicità più completa Aska per i motivi che lo spettatore scoprirà nel vedere il film.
Emerge nel film a caratteri cubitali il contrasto sempiterno tra chi vuole generare la vita a tutti i costi (Gemma) sperando anche nel miracolo e coloro (i padroni della guerra, i mostri dell’umanità) che, invece, questa vita la eliminano senza pensarci un attimo in modo cruento, crudele e violento. Ci vorrebbe l’attore Buster Keaton, la cui immagine viene evocata al finire del film, con la sua aria stravolta e malinconica, famoso per i continui rovesciamenti di senso per raccontare la storia di “Venuto al mondo”, in cui l’amore prevale comunque sui mostri dell’umanità!  Un film, quindi, denso, intenso, violento sicuramente, pieno di significati e di metafore che fanno riflettere sul senso della vita, dove pullulano attori molto bravi tra cui Penelope Cruz,  Luca De Filippo che veste i panni di Armando, il padre di Gemma, e Adnan Haskovic che interpreta Gojko, il poeta bosniaco che fa scoprire a Gemma un mondo a lei ignoto, ed emerge Pietro Castellitto, figlio della coppia Castellitto-Mazzantini.


giovedì 8 novembre 2012

Con il film “Io e te” il regista Bernardo Bertolucci ancora una volta dimostra la sua indiscussa bravura di interprete dell’animo giovanile

Titolo: Io e te
Regia: Bernardo Bertolucci
Soggetto: Niccolò Ammanniti
Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Niccolò Ammanniti, Umberto Contarello, Francesca Marciano
Produzione: Italia, 2012
Cast: Jacopo Olmo Antinori, Tea Falco, Sonia Bergamasco, Veronica Lazar, […]

Un ragazzo introverso, il quattordicenne Lorenzo (Jacopo Olmo Antinori), si trova in difficoltà psichiche nel suo stare tra i coetanei, non sopporta il confronto, vuole fuggire dal mondo caotico alla ricerca di se stesso e delle cose che ama, e che soltanto la solitudine gli può fare trovare. Lorenzo vuole scappare anche dalla madre apprensiva e oppressiva, soffre dell’assenza del padre, ma serva in animo suo una grande umanità dimostrata dalla visita che fa alla nonna (Veronica Lazar) degente in ospedale. Lorenzo vive in un mondo reale che non gli appartiene, ma in cuor suo ha un suo mondo ideale e va alla ricerca di questo mondo. Architetta, allora, un piano nei minimi particolari munendosi delle provviste necessarie, del cellulare e dell’abbronzante, e anche di un formicaio, all’insaputa della madre (Sonia Bergamasco) per isolarsi dal mondo. Si rifugia, infatti, nella cantina dell’appartamento in cui vive con i genitori, nello stesso periodo in cui la sua classe va in gita per la settimana bianca. In quella cantina angusta, piena di polvere e di oggetti abbandonati, Lorenzo ascolta la sua musica preferita ad altissimo volume, osserva l’organizzazione sociale perfetta delle formiche, cammina tra due scatoloni zigzagando come un armadillo a formare un otto, che in posizione orizzontale rappresenta l’infinito, mentre fuori la vita scorre veloce. Quando incomincia a godere della tanto sospirata solitudine avviene un evento inaspettato e inizialmente sgradevole per Lorenzo che gli scompiglia l’equilibrio conquistato. Nella cantina irrompe la sorella Olivia (Tea Falco), figlia del padre con la precedente moglie che vive a Catania, in Sicilia, dove gestisce un negozio di scarpe. Olivia diventata tossicodipendente da eroina per fuggire anche lei, a modo suo, e in modo deleterio dal mondo, mostra, durante la sua permanenza nella cantina, una grande sofferenza, una profonda afflizione, dolori ovunque, insonnia, vomito, ed evidenzia palesemente le offese che la droga hanno portato al suo corpo e anche alla sua mente, ma al tempo stesso in questo turbinio di comportamenti mostra di possedere una grande amorevolezza e affettuosità.
La costrizione forzata della convivenza, la condivisione degli spazi angusti, la dichiarazione delle convinzioni personali come quella di Olivia - Se io e te non avessimo punti di vista saremmo liberi di osservare la realtà come realmente è, senza farci influenzare,  oppure  il dialogo sulle conseguenze della droga: O. -  Quando ti fai non ti tocca nulla, non senti più niente, nessuno ti può fare del male quando ti fai, L. - Be', non è una figata?, O. - No, non è una figata ... perchè sei indifferente, e l'indifferenza non è una bella cosa, e poi diventi fredda, cattiva…" , via via fanno nascere, anzi scoprire, in ambedue quell’affetto semplice e genuino che trasferisce nel loro animo felicità e condivisione di sentimenti, e che gli fa scoprire la forza dell’amore, che li porta a vedere il mondo da cui hanno cercato di fuggire da un’altra visuale.
Bravissimi i due attori giovani alle prese con la loro fatica cinematografica, Jacopo Olmo Antinori e la bellissima e affascinante catanese Tea Falco.
Il film è tratto da libro omonimo di Niccolò Ammanniti, biologo mancato, ma scrittore molto prolifico sia per i lettori che per i registi, che è passato alla ribalta sia con il libro “Io non ho paura”(2001) da cui nel 2003 Gabriele Salvatores realizzò il film omonimo, sia perché ha vinto il premio Strega nel 2007 con il romanzo “Come dio comanda” da cui lo stesso Salvatores  realizzò un altro bel film.
Bernardo Bertolucci, che ritorna dopo molto tempo al cinema dopo la sua malattia che lo ha costretto sulla sedia a rotelle, mostra ancora una volta tutta la sua bravura di grande regista nello sviscerare e interpretare magistralmente i sentimenti della gioventù moderna.

domenica 4 novembre 2012

Il regista Massimiliano Bruno con il film “Viva l’Italia” descrive, in chiave satirica, con amarezza e afflizione il degrado morale e del senso civico del nostro paese.

Titolo: Viva l’Italia
Regia: Massimiliano Bruno
Soggetto e sceneggiatura: Edoardo Falcone, Massimiliano Bruno
Musica: Giuliano Taviani, Carmelo Travia
Produzione: Italia, 2012
Cast: Michele Placido, Raoul Bova, Alessandro Gassman, Ambra Angiolini, Rocco Papaleo, Edoardo Leo, Maurizio Mattioli, Rolando Ravello, Elena Cucci, […]

La descrizione sociale e politica, anche se in chiave magistralmente satirica, avulsa da sterile moralismo, che il regista Massimiliano Bruno fa del paese Italia con questo film “Viva l’Italia” è rigorosamente attinente alla realtà attuale. Il regista, per far questo, illustra i connotati di una presumibile famiglia di un capo indiscusso di partito politico al potere, il grottesco Michele Spagnolo (Michele Placido), i cui tre figli, Riccardo (Raoul Bova) medico, Valerio (Alessandro Gassman) amministratore di una società che fornisce il cibo per gli ammalati dell’ospedale, e Susanna (Ambra Angiolini) attrice, sono stati tutti e tre raccomandati (il medico a sua insaputa) per il posto che occupano.
L’ipocrisia dilagante, il cinismo, l’uso della menzogna, l’arroganza, l’assenza di etica e di morale dei politici, il malcostume, lo sperpero del denaro pubblico, l’uso sfrenato delle raccomandazioni, il favoritismo sistematico, il privilegio del demerito a svantaggio del merito, l’ignoranza, la Cultura che viene maltrattata perché incomoda al potere politico, l’opportunismo e il trasformismo di chi vuol fare carriera, l’inciucio, il compromesso, il danneggiamento della sanità pubblica per salvaguardare quella privata, la precarietà del lavoro, la disgregazione della famiglia, il populismo e la demagogia, e chi più ne più ne metta, sono le considerevoli peculiarità salienti che affiorano dalla descrizione satirica delle vicende interne ed esterne che ruotano attorno alla famiglia Spagnolo, in questa stravolgente commedia. Vicende che fanno ridere amaramente gli spettatori della cui esistenza però sono consapevoli visti i corrispettivi fatti di cronaca di questi ultimi tempi.
Il regista costruisce magistralmente, tuttavia, tutte le storie attorno al tema della verità, e lo dimostra quando Michele Spagnolo, colpito da ictus cerebrale, pirandellianamente parlando incomincia a dire tutta la verità come quando, in ospedale, afferma "… io sono ricco, passo davanti, lei è povera e s'attacca al cazzo!".

Il regista, nel corso del film, come voce narrante, dopo aver citato vari articoli della Carta costituzionale sempre disattesi, rinforza ancora il tema della verità sul finire del film quando afferma che bisognerebbe introdurre nella Costituzione italiana un ulteriore articolo, il centoquarantesimo, che dovrebbe sancire che "Tutti i cittadini hanno il diritto di conoscere la verità", in modo che ogni cittadino dopo aver votato consapevolmente possa rendersi conto a posteriori di avere sbagliato oppure no, “aggiustando il tiro” la volta successiva.
Massimiliano Bruno, autore teatrale e televisivo che, con il suo primo film “Nessuno mi può giudicare” con la brava Paola Cortellesi e Raoul Bova, si fa conoscere per la bravura dimostrata dal grande pubblico cinefilo, in “Viva l’Italia” fa uso di un linguaggio satirico che si avvicina a quello del compianto Mario Monicelli perché, come questo regista, non rispetta la retorica, è aggressivo, mette in evidenza il cinismo, il menefreghismo, l’indifferenza, il trasformismo dei politici italiani, smaschera la sacralità e mette in luce anche la fragilità dei suoi personaggi, dei quali evidenzia i caratteri miseri e meschini fino al punto di ridicolizzarli.
Il film è popolato da un gran numero di attori noti e meno noti, che reggono molto bene la loro parte, tra i quali spiccano per la bravura istrionesca Michele Placido e Rocco Papaleo (Tony).

giovedì 25 ottobre 2012

Silvio Soldini con il film “Il comandante e la cicogna” manifesta tutta la sua anima poetica e romantica in un Italia che l’ha persa.

Titolo: Il comandante e la cicogna
Regia: Silvio Soldini
Sceneggiatura: Silvio Soldini,  Marco Pettenello, Doriana Leondeff
Musica: Banda Osiris; la canzone “La cicogna” è cantata da Vinicio Capossela
Produzione, Italia, Svizzera, 2012
Cast: Valerio Mastandrea, Claudia Gerini, Alba Rohrwacher, Giuseppe Battiston, Luca Zingaretti, Luca Dirodi, Serena Pinto, Shi Yang, Michele Maganza, Giselda Volodi, Giuseppe Cederna, Fausto Russo Alesi, […]

Silvio Soldini descrive nel film “Il comandante e la cicogna” una città apparentemente e volutamente anonima perché potrebbe essere una qualsiasi città italiana (in effetti è Torino) rappresentativa del paese Italia, in cui pullula un mondo melmoso e corrotto dove vivono individui, uomini e donne, anche in età adolescenziale, disorientati, senza valori in cui credere e a cui aggrapparsi, che si lasciano trasportare dagli eventi senza possibilità alcuna di riuscire a dominarli. C’è l’idraulico Leo (Valerio Mastandrea), rimasto vedovo, che trova sollievo nel ricordo antropomorfizzato della moglie Teresa (Claudia Gerini), morta in un incidente, perchè non riesce a gestire e controllare i suoi due figli Elia (Luca Dirodi) e Maddalena (Serena Pinto). Il primo molto riflessivo e dalle evidenti capacità creative è molto preso dal comportamento di una cicogna con cui ha instaurato una inconsueta amicizia, e l’altra molto presa da relazioni para-affettive che sfociano immancabilmente in deleteri rapporti sessuali, molto imprudenti e nocivi. Poi c’è Diana (Alba Rohrwacher) che cerca stentatamente di realizzare il suo sogno di pittrice. Ci sono, anche se dai modi di pensare e dai comportamenti antitetici, da una parte il grosso simpatico omone Amanzio (Giuseppe Battiston), non lavoratore di professione e amante del bel vivere, che sbarca il lunario con i proventi che gli arrivano con il contagocce dall’affitto della sua casa, e dall’altra l’avvocato Malaffano (Luca Zingaretti) un professionista lazzarone e truffaldino i cui clienti adepti al malaffare sono o malfattori o in carcere. C’è anche il segugio Emiliano (Michele Maganza) che sfrutta senza ritegno e senza pudicizia i sentimenti pur di raggiungere l’obiettivo per il quale è stato pagato.
Un paese Italia, dunque, in cui l’immoralità e la superficialità imperversano e dove si è perso il senso della storia. Soldini, infatti, fa parlare la statua di Giuseppe Garibaldi che ha lottato e che ha visto tanto sangue versato perché l’Italia risorgesse e diventasse unita, e quella di Leonardo da Vinci,  uno dei più grandi ingegni della storia, e ancora quella di Giacomo Leopardi, grande poeta romantico. Rappresentanti rispettivamente degli ideali, dell’ingegno e della poesia che sono andati via via persi e sostituiti dall’ignoranza, dall’arroganza e dal malaffare. Rappresentanti che se vivessero nei giorni nostri sicuramente si vergognerebbero e si pentirebbero di aver creduto in certi ideali o di aver fatto ciò che hanno fatto per  dare prestigio all’Italia.  Non è un caso che nel film venga recisa la testa del cavaliere Cazzaniga, metafora di chi ha portato in questo stato rovinoso l’Italia. E non è neppure un caso che quella testa diventi il simulacro da custodire e venerare presso lo studio dell’avvocato Malaffano, suo degno sostenitore.
Soldini, tuttavia, dà un messaggio di positività in questo disastroso sfacelo e lo fa attraverso il busto di Leopardi che si gira di notte verso una finestra illuminata dove Leo e Diana hanno fatto l’amore o attraverso al ripresa del volo di una cicogna, simbolo di risveglio e di rinascita. Oserei dire, parafrasando De AndréDal letame nascono i fiori”, che è questo il messaggio che Soldini vuole darci.  Un film ben diretto, in cui tutti gli attori hanno mostrato la loro ormai famosa bravura, compresi i giovanissimi Luca Dirodi e Serena Pinto, e dove hanno trovato vitalità anche le voci di Pierfrancesco Favino, quella di Neri Marcorè e anche quella di Giugno Alberti. Un film che Soldini definisce “surreale, fantasioso e divertente ma decisamente deflagrante”, e che mantiene lo stesso spirito di “Pani e tulipani” (2000) con Licia Maglietta, Bruno Ganz e Giuseppe Battiston, ma che per questa sua specificità fantastica, surreale e grottesca si allontana dai toni realistici di “Giorni e nuvole” (2007) con Margherita Buy, Antonio Albanese e Giuseppe Battiston  o di “Cosa voglio di più”(2010) con Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher e Giuseppe Battiston (attore preferito da Soldini).

martedì 23 ottobre 2012

Con il film “Lo spazio bianco” Francesca Comencini descrive le vicissitudini di una donna matura in procinto di diventare madre.

Titolo: Lo spazio bianco
Regia: Francesca Comencini
Soggetto: Valeria Parrella
Sceneggiatura: Francesca Comencini, Federica Pontremoli
Produzione: Italia, 2009
Cast: Margherita Buy, Gaetano Bruno, Giovanni Ludeno, Salvatore Cantalupo, Antonia Truppo, Guido Caprino, Maria Paiato, […]

Una gravidanza inattesa crea in Maria (Margherita Buy), insegnante di italiano in una scuola serale, un tale scombussolamento che le sconvolge quell’equilibrio vitale che aveva raggiunto fino a quel momento. Maria, che vive da sola e che data l’età avanzata aveva abbandonato definitivamente il sogno di diventare madre o di farsi un compagno o un marito, quando meno se l’aspetta, in seguito ad un rapporto sessuale, casuale, transitorio, rimane prima incinta e poi sola a gestire la gravidanza perché abbandonata da Pietro (Guido Caprino), l’uomo con cui aveva avuto la relazione “galeotta”. Maria conduce magnificamente la gravidanza ma partorisce prematuramente Irene, una bimba di sei mesi. Il tempo in cui la neonata rimane nell’incubatrice, sospesa tra vita e la morte, fino a quando questa forse acquisirà le capacità fisiologiche che le consentiranno di vivere autonomamente, costituisce “lo spazio bianco”, cioè l’interstizio che c’è tra l’essere e il non essere, il vuoto che ognuno di noi prova in quei particolari momenti della vita caratterizzati da una grande insicurezza, e che fomenta quelle incertezze quotidiane che ognuno tende a sopprimere, spinto da una forza sconosciuta, per giungere a quelle ricercate emozioni che danno un senso alla vita. In quello “spazio bianco” Maria, infatti, inserisce ogni cosa a torto o a ragione, dove, casualmente e spontaneamente a seconda del momento e dei fatti che sta vivendo, intercala  i ricordi belli e cattivi che le affiorano alla mente e i fatti che le succedono  quotidianamente con tutte le palpitazioni e il conseguente sconforto che generano le umane ansie miste alle preoccupazioni, alle inquietudini e alle angustie. Queste, per fortuna e forse per un innata tendenza alla conservazione della specie umana, sono intervallate fortunatamente da frammenti momentanei di gioia. La misteriosa Margherita Buy, una delle poche attrici italiane avulsa a ragione dal gossip, interpreta magistralmente un personaggio che sembra costruito apposta per lei. Per questo film la Buy, infatti, ha avuto la nomination come migliore attrice del premio Nastro d’argento 2010 e la nomination come migliore attrice del premio Davide di Donatello 2010. Francesca Comencini mostra, da parte sua, la bravura e la profondità della grande regista ottenendo il premio Nastro d’argento 2010. Il film è stato tratto dal romanzo omonimo della scrittrice Valeria Parrella.

giovedì 18 ottobre 2012

Con il film “Un sapore di ruggine e ossa” il regista Jacques Audiard descrive gli aspetti tragici e violenti di un mondo senza valori.

Titolo: Un sapore di ruggine e ossa
Titolo originale: De rouille et d’os
Regia: Jacques Audiard
Sceneggiatura: Jacques Audiard, Thomas Bidegain
Musica: Alexandre Despalt
Paese: Francia, Belgio 2012
Cast: Marion Cotillard, Matthias Schoenaerts, Armand Verdure, Corinne Masiero, Céline Sallette, […]
Il regista Jacques Audiard in questo film "Un sapore di ruggine e ossa", basato su libro di racconti “Ruggine e ossa” di Craig Davidson, descrive un mondo in cui c’è assenza di valori e di sentimenti, dove ogni individuo vive senza punti di riferimento, dove si fa sesso solo come bisogno fisiologico e solo quando si è “opè”, dove l’apparire conta più dell’essere, e dove prevale non soltanto la tragedia ma anche la violenza fine a se stessa. La prima, cioè la tragedia, si coglie nella solitudine di un bel bambino di cinque anni, Sam (Armand Verdure), che abbandonato dalla madre, pur vivendo con il padre in una cittadina al sud della Francia, praticamente passa le giornate in solitudine e trova grande conforto e soddisfazione dei propri bisogni affettivi soltanto nell’accudire e nel giocare con due cuccioli. L’attaccamento sentimentale nei confronti dei due cagnolini è così grande che prova un grande dolore nel momento in cui essi vengono dati via dalla zia. La tragedia si coglie ancora nell’evento sfortunato che si abbatte sulla bellissima Stephanie (Marion Cotillard), addestratrice di orche marine, che perde ambedue gli arti inferiori. La tragedia si evidenzia ancora quando il piccolo Sam cade nell’acqua di un lago  in seguito alla rottura della lastra ghiacciata superficiale che la ricopriva. La violenza, invece, si coglie nei sanguinosi incontri clandestini di pugilato che Alain (l’attore belga Matthias Schoenarts), il padre di Sam, compie per sbarcare il lunario.  La violenza sorprende, ancora, quando Alain picchia a malo modo il piccolo Sam perché non vuole uscire dalla cuccia canile, oppure quando cerca di lavarlo a modo suo, perché sporco. La violenza afferra lo spettatore anche quando la sorella di Alain, Anna (Corinne Masiero), viene licenziata dal supermercato in cui lavora, perché è stata ripresa da videocamere nascoste mentre ruba dal magazzino vaschette di yogurt scaduto. In questo film, il regista mostra ancora una volta la sua visione pessimistica della realtà dove vige la legge del più forte, anche se in maniera più pacata rispetto al suo ottimo film “Il profeta” (2009), e dove la violenza ha sempre la parte del leone. Non solo violenza fisica ma anche psichica. E fa intuire anche la concezione sallustiana secondo la quale l’uomo “faber est suae quisque fortunae”, cioè l’uomo è anche artefice della propria sorte. Sostiene, però, che solo affidandosi all’amore si possano trasformare le avversità in eventi fausti. Ma lo dice attraverso la trasparenza del vetro!
Il film dai tratti forti è stato presentato al Festival del Cinema di Cannes 2012 ottenendo il plauso della critica e del pubblico. Bravissima l’attrice Marion Cotillard, indimenticabile sia per l’interpretazione di Fanny  Chenal in “Un’ottima annata“(2006) di Ridley Scott sia per quella magnifica e insuperabile interpretazione della cantante Edith Piaf in “La vie en rose” (2008) di Olivier Dahan che le fruttò il premio Oscar 2008 come migliore attrice.

sabato 13 ottobre 2012

Con il film “Tutti i santi giorni” il regista Paolo Virzì abbandona l’impronta sarcastica e ironica e scopre la vena romantica

Titolo: Tutti i santi giorni
Regia: Paolo Virzì
Sceneggiatura: Paolo Virzì, Francesco Bruni, Simone Lenzi
Colonna sonora: Federica Victoria Caiozzo, in arte Thony
Produzione: Italia, 2012
Cast: Luca Marinelli, Federica Victoria Caiozzo in arte Thony, Micol Azzurro, Claudio Pallitto, Stefania Felicioli, Franco Gargia, Giovanni la Parola, […]

Il film “Tutti i santi giorni” tratto dal romanzo “La generazione” di Simone Lenzi, che è anche uno degli sceneggiatori, tratta della relazione amorosa di una coppia. Il film racconta, infatti, di una strana coppia di due giovani conviventi ultratrentenni, ambedue lavoratori precari. Innamorati però. Siciliana “coatta” lei, molto bella: Antonia (Thony), ignorante, cantautrice, sgradevole nei modi poco ortodossi, impiegata in un autonoleggio, che utilizza un linguaggio scurrile e dozzinale (ad esempio “minchia” sinonimo di pene, dal latino “mencla”, è una parola frequente nel suo lessico), scappata di casa dopo aver litigato con i familiari, in primis con i genitori che le risultano fastidiosi e insopportabili. Di origini toscane invece lui: Guido (Luca Marinelli) lavora come portiere in un albergo, è molto colto - chiamato per questo ironicamente “quidopedia” - e ben educato, lo contraddistingue un animo nobile e genuino, fa uso di un linguaggio spontaneo, elegante e raffinato, dimostra modi gentili e cortesi, ed è molto legato alla sua famiglia. Due giovani che, come cultura, comportamento, origini, modi, usi e costumi, sono agli antipodi. Contemporanea lei. Anacronistico lui. Eppure si amano alla follia, anzi lui ama più lei che viceversa. “Tutti i santi giorni”, di sera, di mattina, di notte, quando capita, fanno sesso appassionante. Un legame basato sulla purezza e sulla genuinità dei sentimenti soprattutto di Guido. Sembrano inseparabili e avulsi dai comportamenti della gioventù moderna, distaccati da quel mondo che ruota attorno a loro, deturpato dal pressappochismo, dall’ignoranza imperante, dal pensiero unico dettato dai talk show televisivi o dalle partite di calcio domenicali, dalla violenza fisica, dalla superficialità, dove le relazioni conviviali sono ridotte all’osso, dove i sentimenti non contano, dove i figli vengono abbandonati dai padri senza alcun problema, dove la precarietà non è solo economica ma anche etica e morale, dove non ci sono punti di riferimento, valori certi a cui aggrapparsi per vivere decentemente. Un mondo ormai lontano da quell’originario concetto di femminilità che è stata deturpata, lesa e vilipesa e da quell’idea di legame affettivo che tiene fortemente unito un uomo ad una donna. E in questo mondo la bella Antonia non si sente all’altezza di Guido, ne soffre sia l’inferiorità culturale che quella comportamentale e con la scusa di non poter avere un figlio, per avere il quale ha lottato tanto, lo lascia e va a vivere con un suo vecchio amico cantante Jimmy (Giovanni La Parola), un giovane senza identità, disorientato, allo sbando. Ma non finisce qui…  Guido e Antonia ripartiranno un’altra volta. Insieme.
Un film diverso, spiazzante” è “Tutti i santi giorni” come afferma il regista, un inno all’amore contro lo squallore, la superficialità e la rozzezza che caratterizzano il nostro tempo, un film che dimostra come l’amore possa unire due persone culturalmente e socialmente diverse, un film commedia che si distacca nettamente dall’ultimo film di Paolo VirzìLa prima cosa bella” interpretato magnificamente dalla brava Micaela Ramazzotti. Un film dove  Luca Marinelli dimostra di essere un bravo attore così come lo ha evidenziato con la sua precedente interpretazione ne “La solitudine dei numeri primi” e dove Federica Victoria Caiozzo, in arte Thony, che da cantante è stata catapultata ad essere attrice, è stata una vera scoperta.

giovedì 4 ottobre 2012

Con il film “Reality” Matteo Garrone descrive la realtà a portata di televisione.

Titolo: Reality
Regia: Matteo Garrone
Soggetto: Matteo Garrone, Massimo Gaudioso
Sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Maurizio Bracci, Ugo Chiti
Musica: Alexandre Desplat
Produzione: Italia, 2012
Cast: Aniello Arena, Loredana Simioli, Nadno Paone, Ciro Petrone, Nello Iorio, Nuzia Schiano, Claudia Gerini, Graziella Marina, […]
Straordinariamente strepitoso, terribilmente tragico, prepotentemente sconvolgente a tal punto da scuotere le coscienze degli spettatori quest’ultimo bellissimo film di Matteo Garrone “Reality” che, seguendo la scia del film “Gomorra” soltanto nella scelta degli attori, attori non professionisti “grassi, sporchi e cattivi” (come l'attore carcerato Aniello Arena, che riveste la parte del protagonista Luciano Ciotola, o come il ragazzo barista interpretato da Ciro Petrone, uno dei due protagonisti giovani di “Gomorra”), riesce a descrivere la realtà dei videodipendenti in modo documentaristico facendone risaltare l’aspetto grottesco e tragicomico.
Reality” è, secondo la nostra opinione, un drammatico e idoneo atto d'accusa nei confronti di quei programmi televisivi che in maniera occulta e subdola tendono a portare, annullandogli la volontà, ad un’obbedienza cieca al potere costituito e ai leader che lo detengono, gli individui, sotto l’ipocrita e utopica finalità di fargli raggiungere la felicità. In effetti il berlusconismo non ha cercato di fare questo? Un male scampato, almeno per ora.
Tutto ciò era già stato previsto da George Orwell che nel romanzo fanta-futuristico “1984”, descrive un “Grande fratello” che vuol far credere agli individui, riuscendoci, che “la guerra è pace”, che “la libertà è schiavitù”, che “l’ignoranza è forza”, e dove l’“Orthodoxy means not thinking – not needing to think. Orthodoxy  is unconsciousness”, (Ortodossia significa non pensare – non avere necessità di pensare. Ortodossia è perdita di coscienza). Allo stesso modo, oggi con i “Reality show” avviene nella mente dell’individuo che li segue una distorsione della realtà che ne annulla la coscienza, facendolo diventare in certo qual modo un automa. E ciò che avviene a Luciano, il protagonista del film, il quale gradualmente perde la capacità di ragionare e, come un nuotatore che viene sorpreso dalla furia delle acque di un fiume in piena senza possibilità alcuna di trovare un riparo, diventa un ossesso, un folle pirandellianamente parlando. La furia delle acque è come la follia prodotta dalle fisime e dalle fissazioni causate dal reality, secondo la sequenza guardare-condividere-accettare, da cui l’individuo non potrà più uscire, non ha più scampo. Alla luce di questa concezione ciò che conta non è “essere” ma “apparire” come si evince dall’aforisma: -“Essere” ci dà il senso della vita, “apparire” invece il vuoto dentro di noi -. (da http://www.aphorism.it/francesco_giuliano/aforismi/essere_ci_da_il_senso_della_vita_apparire_inv/.
Un'anticipazione di questa concezione si ha con la sequenza iniziale del film che descrive lo svolgimento di un matrimonio. A nulla valgono i tentativi di dissuasione nei confronti di Luciano della moglie Maria (Loreadana Simioli) o della zia Nunzia(Nunzia Schiano) o dell’amico Michele (Nando Paone). È come parlare al vento che porta via con sé tutto.
Tutto questo è conseguenza dell’avvento innocente della televisione in Italia dal lontano 1954 che ha stravolto la vita degli italiani come si evince nel racconto “La televisione” dal romanzo “I sassi di Kasmenai” (ed. Il foglio, 2008): “Ormai era un desiderio di tutte le famiglie quello di possedere in casa la scatoletta (n.d.r la televisione), che poi ha cambiato la vita agli italiani, sia nel bene sia nel male; una cosa rilevante, determinata da quell’oggetto, è stata la diffusione della lingua italiana entro i confini nazionali, ed anche fuori... .”

Suggestiva e significativa la sequenza delle immagini (una delle quali è riportata nella locandina) che si susseguono al termine del film che ricorda le immagini iniziali, riportate all’incontrario, del film dei fratelli Ethan e Joel CoenBurn After Reading - A prova di spia” (2008). Le azioni degli uomini sono poca cosa nei confronti dell’infinità dell’Universo, o meglio, per fare intendere il discorso, sono un infinitesimo come lo è “il bosone di Higgs” la più piccola particella subatomica dal carattere effimero. Bella la colonna sonora del maestro Alexandre Desplat.
Il film ha avuto conferito il premio della Giuria al Festival di Cannes 2012.

lunedì 1 ottobre 2012

Il film “20 sigarette” di Aureliano Amadei descrive il dramma della guerra raccontato da un sopravvissuto

Titolo: 20 sigarette
Regia: Aureliano Amadei
Soggetto: Aureliano Amadei, Francesco Trento, Volfango De Biasi
Sceneggiatura: Aureliano Amadei, Francesco Trento, Volfango De Biasi, Gianni Romoli
Produzione: Italia, 2010
Cast: Vinico Marchioni, Carolina Crescentini, Giorgio Colangeli, Orsetta De Rossi, Alberto Basaluzzo, Edoardo Pesce, Luciano Virgilio, Massimo Popolizio, […]


20 sigarette”, un titolo che scandisce inesorabilmente il trascorrere del tempo come un orologio, è un film trasmesso recentemente, in prima serata, su RAI3. Esso descrive le vicissitudini drammatiche, terribilmente vere e orribilmente realistiche vissute in prima persona dallo stesso regista del film Aureliano Amadei (Vinicio Marchioni) che è stata l’unica persona sopravvissuta all’attentato di Nassiriya in Iraq nel novembre 2003. Amadei era andato in Iraq come assistente del regista Stefano Rolla (Giorgio Colangeli), morto nell’attentato, per girare un film e invece restò ferito fortunosamente anche se gravemente. Rimessosi in sesto, anche se rimasto claudicante, dopo circa sette anni, girò questo film, con una ripresa originale anche se azzardata, come un bravo cronista documentarista. Ripresa eseguita appositamente tremolante e per questo realistica che conferisce al film l’impronta di documentario, appunto. Immagini cruente e crude, di corpi dilaniati coperti da un miscuglio di sangue e polvere, seguite da lamenti e di silenzi, da grida e da pianti, da desolazione e da sconforto, come se la ripresa fosse stata fatta in diretta. Immagini che coinvolgono emotivamente lo spettatore a cui trasmettono sofferenza e angoscia e al quale fanno toccare con mano l’ipocrisia e il cinismo dei nostri governanti che sotto l’egida della “missione di pace” inviano i militari a fare la “guerra”. L’egida della “guerra”, da cui emerge, infatti, con forza cruda implacabile aspro che la vita perde il valore e il significato che la caratterizzano, dove i corpi dilaniati rimangono intrisi del purpureo liquido vitale come un’impronta indelebile, indistruttibile, indimenticabile. Tutto ciò dovrebbe farci riflettere sulla “guerra” e sulla sua inutilità e aborrirla per difendere la pace a tutti i costi, per difendere la vita, perché a questo mondo si nasce e si vive una volta sola. Nel film risalta anche la figura di Claudia (la bella Carolina Crescentini), che copre il ruolo della fidanzata di Amadei.