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domenica 27 novembre 2011

In Nome Della Legge


Film del 1948 diretto da Pietro Germi, girato a Sciacca , tratto dal romanzo Piccola pretura del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo. Un vero e proprio western italiano, come lo definì la critica de l'epoca. Racconta la storia di un giovane ed onesto pretore, che non vuole piegarsi a soprusi e a imposizioni di nessun genere, e che vuole affermare e sostenere l'indipendenza e l'imparzialità della giustizia. È una denuncia violenta e implacabile, una documentazione impressionante. Il paesaggio fisico, l'ambiente, i personaggi, i problemi sociali si fondono in una narrazione prettamente cinematografica, anche se talvolta il regista più che alla verità si ispira al mito. Il film ha il merito di non voler dimostrare niente: tutti hanno ragione e tutti hanno torto. Ciò che conta veramente è la Sicilia dell'interno, assolata, infeconda, chiusa agli estranei, legata a un codice di onore che ha fatto il suo tempo, bruciata dal sole con un respiro di valli e colline che non ha nulla da invidiare al Nuovo Messico o all'Arizona di Ford. Una Sicilia in cui si vedono corriere assai simili alle diligenze del far-west; strade, quasi piste, che si arrampicano tra pietre e terra arsa fino ad un bianco incredibile paesetto semi-deserto, in cui le differenze di classe sono soprattutto indicate dal modo di viaggiare: a piedi i contadini e i minatori, sull'asino gli “intellettuali”, a cavallo la mafia. Dove i banditi e i rapinatori isolati, la mafia e il barone, vile e prepotente a capo del paese, costituiscono i pilastri di una società retta da regole e codici di una ferocia spietata e quasi medioevale, in cui la società moderna finisce con l'essere dominata e vinta del barone, che la mafia protegge e sostiene. La Sicilia ha anche un valore, oltre che strettamente documentario, simbolico: è facile, con simili sfondi, restituire il senso della solitudine dell'uomo, e dei valori arcaici e primordiali che dominano la sua vita.
Il racconto segue la sua via senza concessioni, senza pentimenti, fino alla prima parte del secondo tempo; e sin qui si ha l'impressione di assistere alla nascita di un film quasi memorabile, anche se il contenuto idillio fra la baronessa e il pretore sia un po' forzato. Ma poi il film ha degli indugi, per infine, ripiegarsi su se stesso. La conclusione, che la logica imporrebbe, è appena intravista e poi abbandonata, questo film coraggioso non ha il coraggio di esserlo fino in fondo. Quando tutto vorrebbe che il giovane pretore abbandonasse sfiduciato la lotta, e la mafia ancora una volta trionfasse, si assiste invece ad un ampio e retorico lieto fine. La norma della mafia, infatti, riconoscerà il suo errore e si sottometterà alla legge. L'immagine che Germi ci da è quella di una mafia dominata da antiche leggi e codici ben precisi, una mafia che in alcuni momenti appare quasi più dignitosa e leale rispetto a quelli che dovrebbero essere i “buoni”. Malgrado questo, si tratta pur sempre di un'opera che molto onera il cinema italiano, grazie soprattutto alla presenza di alcune scene tra le più belle del nostro cinema.




Fonti:

In Stefania Carpiceci (a cura di), Pietro Germi. Viaggio nel cinema italiano, Massenzio, Roma, 1995.
Paolo Gobetti, L'Unità, 31 Marzo 1949.
Mario Gromo, Film visti, pag. 316-317, 1949.
Pietro Bianchi, Candido, 3 Aprile 1949.

La storia recente dell’Italia nel film BAARÌA di Giuseppe Tornatore





Quanto amore per la sua Sicilia manifesta Giuseppe “Peppuccio” Tornatore nei suoi magnifici film (Non si può dimenticare il suo capolavoro, con cui suggella il suo amore per il cinema, Nuovo Cinema Paradiso del 1988 con un grandissimo Philipp Noiret) e la descrizione dei luoghi meravigliosi che vengono fuori da un paesaggio apparentemente rude, ma attraente, quello siciliano, in cui si svolge la vita degli umili e dei diseredati, con tutta la disperazione che si portano appresso senza possibilità alcuna di potersela togliere d’addosso.



Ebbene, Tornatore nel suo ultimo film, Baarìa - di cui si è detto già tanto e di cui io dirò soltanto adesso dopo aver visto il film - parla della sua terra natìa, Bagheria nell’entroterra palermitano, a partire dal tetro e oscuro periodo fascista attraverso la seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri, e ne descrive la miseria, la fame, la desolazione amara, lo sconforto e la proverbiale disperazione. Lo fa con delle immagini crude, naturali, selvagge, a volte sgradevoli, spietate così come fa il suo conterraneo Renato Guttuso, grande pittore, che sostiene, a proposito del suo quadro l’Occupazione delle terre incolte: i contadini siciliani che hanno nel mio cuore il primo posto, perché io sono dei loro, i cui volti mi vengono continuamente davanti agli occhi qualunque cosa io faccia, contadini siciliani che sono tanta parte della storia d'Italia…, (presentato alla Biennale di Venezia del 1950). O come fa il saggista Pasquale Villari che descrive la Sicilia, un luogo dove si trovano i feudi e i contadini più poveri o proletari. I borghesi arricchiti, i proprietari negozianti pigliano a gabella gli ex feudi, che subaffittano ai contadini, dividendo le vaste tenute in porzioni, delle quali serbano per se stessi la migliore e fanno contratti di subaffitto, diversi, ma sempre onerosissimi per i contadini. Oppure, come afferma Francesco Giuliano nel suo romanzo Come fumo nell’aria (ed. Prospettiva editrice): la differenza la fanno le leggi scritte e non scritte da quelli che hanno in mano il potere, e nel passato questo è stato esercitato dai baroni. È per questo che se i poveri rubano vanno a finire in galera, mentre se rubano i ricchi o i furbi non gli succede niente, anche se di fronte a Dio non hanno nessuna giustificazione delle loro malefatte. Ogni domenica, infatti, rispetto agli altri giorni, hai notato che in chiesa dinanzi al confessionale c’è una lunga fila di queste persone che vogliono confessarsi per farsi perdonare i peccati che hanno commesso? Capisci dunque che buona parte delle norme legislative è stata scritta a loro favore. Poi c’è il potere dei prepotenti e su quello le leggi non hanno alcun controllo. Se i nostri desideri, le nostre necessità, i bisogni fondamentali della nostra esistenza, le nostre speranze dipendono da un altro, è evidente che questo ha potere su di noi.


A livello emotivo, tante sono le impressioni donatemi da questo film. L’identificazione, fin dai primissimi fotogrammi, con la mia realtà di origine: l’atmosfera rurale, la nostalgia per quei luoghi di sofferenza, la voglia di emancipazione dalle proprie radici, l’accento sui comportamenti diffusi e a volte stonati del gregge, e le sensazioni raccontate magistralmente dal regista, che ha saputo trattare argomenti a volte personali in modo talmente dettagliato e lirico da rendere inevitabile l’identificazione dello spettatore che abbia vissuto esperienze anche lontanamente simili nell’altro capo dell’Italia. Favorendo così il passaggio dal particolare all’universale.


Tornatore in Baarìa coglie, dunque, il pretesto per parlare della sua Sicilia una terra fertile, bella e arcigna, fascinosa e attraente, misteriosa e arcana, emozionante, incantevole, fruttifera, rigogliosa così come la aggettiva parallelamente ne I sassi di Kasmenai (ed. Il foglio letterario), lo stesso Francesco Giuliano, anch’esso siciliano, dal cui romanzo emerge una fioritura di sapori e profumi, una mescolanza di emozioni vissute in quella terra, dove le storie personali sono troppo spesso ridotte a dettagli inconsistenti, in favore di una prospettiva storica più ampia: la storia omogeneizza i comportamenti di tutti gli uomini, annullando così quella dei singoli. Dove il particolare pian piano assume valore universale.


In Baarìa, lo spettatore ingenuo e poco acculturato, che non fosse sensibile né interessato ad uno scibile tanto ampio e variegato come quello che distingue il film, si trova comunque di fronte a due alternative: apprendere quanto spiegato nel film cercando di trovare un nesso tra il tema proposto e la realtà o limitarsi a fruire della storia ad un livello più superficiale, ma altrettanto dilettevole. Molti film hanno un doppio livello di significato: uno spettatore semplice può valutare la favola del corvo e della volpe di Esopo, come il semplice resoconto di una disputa di animali, ma risulterebbe molto difficile non avvertire tra i fotogrammi una lezione di carattere universale, e chi proprio non ne fosse capace avrebbe perduto il senso più importante del racconto.


Giuseppe Tornatore coglie, quindi, il pretesto di parlare dell’Italia e delle condizioni della sua gente e alcune frasi fanno afferrare in modo repentino il significato del film. Come quella che pronuncia il protagonista Peppino (Francesco Scianna) quando afferma che Sono uno di quelli che vorrebbe abbracciare il mondo ma ha le braccia corte, oppure, quella ancora più greve Un riformista è uno che sa che sbattendo la testa contro un muro, è la testa che si rompe e non il muro e che vuole cambiare il mondo col buon senso. O ancora quella ancora più disperatamente triste di Nino (Salvatore Ficarra) Voglio morire perché qui non succede niente. Questo modo di pensare e quindi il carattere di essere sfiduciati si può cogliere, anche se riferito ad un contesto culturale diverso, nel racconto “Hydra”, del già citato I Sassi di Kasmenai, Non interessava agli abitanti del paese conoscere ciò che i loro progenitori avevano fatto prima di loro; erano dotati di una grande indifferenza ed apatia gli abitanti del paese. Tale insensibilità, purtroppo, ha determinato gradualmente la distruzione di un patrimonio archeologico vecchio di migliaia di anni, utile per comprendere il passato dei popoli che hanno abitato in quei luoghi prima ancora della dominazione greca. Purtroppo un popolo che distrugge i resti del proprio passato è un popolo che distrugge se stesso, soffoca la propria anima, annienta la propria identità, si svuota di significato, non può acquisire i valori umani a fatica conquistati nel tempo dai suoi progenitori, rimane privo di sentimenti. Definitivamente. Per sempre.



Giuseppe Tornatore per fare afferrare il senso di un realismo pessimistico del film, non solo fa parlare i protagonisti, ma anche presenta parimenti alcune scene, spietate metafore, come quella della corsa sfrenata e inconcludente di Peppino ancora bambino o come quella che descrive la villa Palagonia o villa dei Mostri di Bagheria che per essere raggiunta (il trionfo e il riscatto) bisogna attraversare (vincere) un corridoio costellato di mostri (la mafia e lo strapotere) o come quella in cui Peppino riesce a fare ciò che nessuno era riuscito a fare prima di lui, cioè a colpire con lo stesso lancio di una pietra successivamente le tre cuspidi di una roccia sulla collina che domina Bagheria, ma invece del promesso tesoro affiora un covo di serpi (la mafia).



Bravissimo dunque Giuseppe Tornatore che ha costellato questo film con attori famosi e bravi, tra cui, oltre al citato Francesco Scianna, Margareth Madè, Nicole Grimaudo, Lina Sastri, Angela Molina, Salvatore Ficarra e Valentino Picone, Luigi Lo Cascio, Laura Chiatti, Vincenzo Salemme, Michele Placido, Donatella Finocchiaro e tanti altri ancora.






Fonti:

http://it.wikipedia.org/wiki/Renato_Guttuso

http://www.prospettivaeditrice.it/libri/schedeautori/giuliano/giuliano1.htm

http://edizioniilfoglio.blogspot.com/2008/11/i-sassi-di-kasmenai-su-latina-notizie.html

http://www.mymovies.it/film/2009/baarialaportadelvento/