In una Napoli effervescente di colori, di balli e di musica, come il Sirtaki (la cui musica venne composta nel 1964 da Mikis Theodorakis per il film Zorba il greco, interpretato dall’insuperabile Anthony Quinn), che rimase per molto tempo nella fantasia degli spettatori, dove il ritmo aumenta passo dopo passo, si susseguono e si intrecciano le vicende di questo film d’esordio del regista Ivan Cotroneo che usa la "kriptonite" come metafora per evidenziare che ognuno di noi può comportarsi nella vita come un supereroe fino a quando i suoi sentimenti non vengono inibiti, repressi, soffocati, frenati, dominati, quei sentimenti e quei pensieri che catalizzano il nostro modo di essere e fanno esplodere tutta la nostra vitalità e l’entusiasmo che è in noi.
Ivan Cotroneo per fare questo sceglie la famiglia ed un periodo storico della nostra società - i primi anni settanta, conseguenti agli anni sessanta o meglio al sessantotto -, in cui i fermenti impetuosi, i fervori passionali, le inquietudini giovanili, le novità effervescenti, l’amore libero, l’incipiente femminismo e le prime esperienze morfeiche affidate all’acido lisergico sintomatico di realistiche illusioni, avevano creato nei giovani delle aspettazioni e delle speranze che purtroppo - come si è visto poi - sono state inibite, represse, oppresse, impedite, ostacolate.
Il regista fa ciò in diversi modi e da diverse angolature, srotolando la pellicola sulle vicende che si svolgono attorno al simpatico bambino Peppino, protagonista predominante del film (Luigi Catani), figlio di Rosaria (Valeria Golino) e di Antonio (Luca Zingaretti). Il regista, infatti, lo fa mostrando inizialmente le fisime ossessive di Gennaro (Vincenzo Semolato) che credendosi un supereroe muore finendo sotto un tram. Il regista lo fa anche capire descrivendo come la serenità familiare possa essere repressa quando la moglie Rosaria scopre che il marito Antonio la tradisce ed entra in depressione mandando all’aria tutto e affidandosi alle cure del valente psichiatra Matarrese (Fabrizio Gifuni). La vergogna conseguente al tradimento e non il tradimento in sé è la fissazione struggente della donna, particolare bizzarro.
Il regista usa, in quel contesto, come appassionante cornice, la canzone di Mina “Quand'ero piccola/ dormivo sempre al lume di una lampada/ per la paura della solitudine/ paura che non mi ha lasciato mai/ nemmeno adesso che sei qui/ e dormi accanto a me/ ma sento che i tuoi sogni ti allontanano/ perché per quelli che si amano/ non c'è, non c'è/ lo stesso sogno da sognare in due…” che suscita negli spettatori istintive emozioni e, in quelli di una certa età, anche nostalgici ricordi. E proferisce con le note della canzone di Peppino di Capri Nun è peccato (1964) - “Si mme suonne 'int''e suonne che faje,/ nun è peccato!.../ E si, 'nzuonno, nu vaso/ mme daje.../ nun è peccato!.../ Tu mme guarde cu ll'uocchie 'e passione,/ io te parlo e mme tremmano 'e mmane.../ e si chesto pe' te nun è bene,/ mme saje dicere 'o bbene ched è?/ Si 'sta vocca desidera 'e vase.../ nun è peccato!/ Ma vestímmolo 'e vita stu suonno/ che 'a freve ce dá.../ E tu abbràcciame,/ cchiù forte astrìgneme.../ pecché 'ammore/ ca siente pe' me,/ peccato nun è!...” - come certi stereotipi inibiscano i sentimenti: l’innamoramento della giovane Titina (Cristiana Capotondi) con un giovane portatore di un handicap fisico inibito dal timore che per questo non possa essere accettato dal padre Vincenzo (Sergio Lolli) e dalla madre (Nunzia Schiano), oppure la frenetica ricerca sfrenata di un fidanzato da parte della zitella Assunta (Monica Nappo) che caparbiamente riesce a trovare Arturo (Massimiliano Gallo) ma che si vergogna di presentarlo ai genitori perché poveri.
Un plauso al regista Ivan Cotroneo che in questo film affronta problemi sociali attuali e agli attori che con la loro bravura fanno sorridere lo spettatore. (Francesco Giuliano)