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giovedì 22 marzo 2012

Nel film “La scomparsa di Patò” la descrizione dell’Italia dei giorni nostri.




Titolo: La scomparsa di Patò
Regia: Rocco Mortelliti
Produzione: Italia, 2010, ma nelle sale dal 24 febbraio 2012
Sceneggiatura: Andrea Camilleri, Maurizio Michetti, Rocco Mortelliti
Musiche: Paola Ghigo
Testo della canzone: Rocco Mortelliti
Interpreti della canzone: Neri Marcoré e Danilo Formaggia
Cast: Nino Frassica, Maurizio Casagrande, Neri Marcoré, Flavio Bucci, Alessandra Mortelliti, Gilberto Idonea, Simona Marchini, Danilo Formaggia, Manlio Dovì, Franco Costanzo, Roberto Herlitzka, […]


Èun bellissimo film, girato tra le città di Canicattì e Naro, la Valle deiTempli di Agrigento e la Scala dei turchi sul Canale di Sicilia, che, riproducendo fedelmente l’omonimo romanzo di Andrea Camilleri, appare nella sceneggiatura fantastico, direi surreale, tant’è che la scenografia suggestiva e affascinante mi ha fatto ritornare in mente gli amati luoghi natii, quando fanciullo vagavo con la fantasia tra i mandorli in fiore e i prodighi ulivi e i resti gloriosi di un’antica civiltà scomparsa forse per sempre.
Il film fa la storia di Antonio Patò (Neri Marcoré), ragioniere di banca che, durante la rappresentazione del “Mortorio”, nel giorno del venerdì santo del 1890 a Vigata, in cui indossa la maschera del traditore Giuda, scompare, si dilegua, svanisce, evapora come acqua al sole, e non se ne sa nulla.… Giuda murì, Patò spirì./ Spirì Patò? Cu l’ammazzò?/ Quantu patì? E po: pirchì/ Patò spirò? - così recita, infatti, una cantilena a mo' di tormentone. In questa vicenda sembra che gli abitanti di Vigata siano indifferenti, incuranti, disinteressati, mentre, invece, loro sanno, sono consapevoli, hanno udito, forse hanno anche visto, ma celano la conoscenza della verità. Tant’è che su un muro della piazza del paese il giorno dopo la scomparsa di Patò appare la scrittura Murì Patò o s’ammucciò? (Morì Patò o si nascose?) Una domanda che, come un tazebao a carattere cubitali, con quella congiunzione disgiuntiva vuole far risaltare quella sempiterna natura contrastale esistente nel carattere dei siciliani e non solo dei siciliani, e vuole al tempo stesso incitare le autorità competenti ad investigare. Il Maresciallo dei Carabinieri, il siciliano Paolo Giummarò (Nino Frassica), e il nordico, perché napoletano, Delegato della Pubblica Sicurezza, Ernesto Bellavia (Maurizio Casagrande), indagano, infatti, in seguito alla denuncia della scomparsa presentata dalla moglie di Patò, Elisabetta Mangiafico (Alessandra Mortelliti), dapprima separatamente ma poi, per un provvedimento energico e rigoroso di natura gerarchica, congiuntamente. Cercano i due servitori dello Stato di scoprire la verità ma si arrovellano in maniera pirandelliana nei meandri spigolosi, arguti, sagaci, sottili, labirintici, ipocriti, cinici, ironici direi, che conducono alla verità. La loro scoperta, che viene puntualmente verbalizzata, evidenzia una falsità incontrollabile, impunita, subdola e rimbalza come “una palla su un muro di gomma”. Quale verità? Quella che si vuol far sapere o la verità vera? Attorno a questa alternativa, in chiave ironica e umoristica, si impernia tutto il racconto. Attorno a questa alternativa il film mette in risalto il legame indissolubile tra la società siciliana di più di un secolo fa, descritta nei minimi particolari sia nei costumi che nei comportamenti e nelle efficaci e vigorose forme dialettali, e quella dell’Italia attuale, evidenziando nella descrizione dei fatti che la verità vera molto spesso è scomoda e deve essere celata. Una commedia che, pur tingendosi di giallo, fa sorridere e ridere ma fa anche pensare amaramente che in questo nostro paese, che è stracolmo di tanti Patò, non si vuol cambiare niente in senso gattopardiano. Tutto deve rimanere come è! “Niente niente, niente è successo,/ batto la testa e l’affare è fatto/ per tutti quanti tutti i paesani/ morto sono e riposo in pace./ L’Italia è unita ma il malaffare/ si è radicato tra la terra e il mare,/ i governanti, sì gente per bene,/ alle coscienze vogliono pensare./ Addormentare questa Italia mia/ quella povera quella pia/ quella che spera per la democrazia/ questa è l’Italia l’Italia mia./ […]/ Lascio alle spalle gente impettita/ da storia nera, ma è gente smarrita,/ c’è chi mente e c’è chi spera/ c’è chi è assorto in preghiera/ ma è l’Italia dell’ipocrisia/ questa è l’Italia è la Sicilia mia/ […]. Una commedia ben realizzata in cui ogni personaggio è ben costruito in chiave macchiettistica e per questo molto efficace: oltre i già detti Paolo Giummarò e Ernesto Bellavia, spiccano Arturo Carlo Bosisio, capitano dei Carabinieri (Flavio Bucci), Liborio Bonafede, questore di Montelusa (Gilberto Idonea), la principessa Imelda Sanjust degli Orticelli (Simona Marchini), Gerlando il ciaramittaro (Franco Costanzo), il becchino (Roberto Herlitza), il mafioso Calogero Pirrello (Manlio Dovì), il marchese Simone Curtò di Baucina (Danilo Formaggia).
Auguro, a chi lo deve ancora vedere, buon divertimento!

mercoledì 21 marzo 2012

Nel film "This must be the place" Paolo Sorrentino descrive il viaggio di un uomo alla ricerca di se stesso

Titolo: This must be the place


Regia: Paolo Sorrentino


Produzione: Italia, Francia e Irlanda, 2011
Cast: Sean Penn, Eve Hewson, Frances McDormand, Joyce Van Patten, Harry Dean Stanton, [...]



This must be the place che tradotto letteralmente significa Questo deve essere il posto, una canzone dei Talking Heads (Teste parlanti), è il titolo del film con il quale il regista Paolo Sorrentino crea un personaggio particolare, sui generis, eccezionale, insolito, non comune, fantastico, che sin dai primi fotogrammi suscita nello spettatore un’inconsueta curiosità, un’incontrollabile attrazione mista a forti emozioni, che originano subitaneamente un istintivo rapporto empatico travolgente spettatore-attore. Una metafora dei giorni nostri che ci fa riflettere sul nostro modo di vivere frenetico, stereotipato, superficiale, distratto, formale e insensibile.
Il regista descrive il personaggio del film con una sottile, quasi trasparente, impercettibile ma realistica vena poetica romantica, esaltando i sentimenti di un uomo (fedeltà coniugale, altruismo, generosità, ecc.), la sua spontaneità, il suo comportamento curioso, la sua stravaganza (la piscina vuota usata per giocare e non per nuotare), la sua andatura e il suo modo di parlare lenti, pacati, monotoni, che subito contrastano con gli stereotipi moderni e con la vita frenetica della nostra società, caratterizzata da una disumana superficialità, che induce ogni individuo a trascurare l’intima essenza dell’uomo e a non dare un significato al senso della vita. Cerca, in definitiva, il regista di dare voce al turbamento e all'irrequietudine dell’animo umano, al contrasto tra presente e passato, al fluire di quest’ultimo in modo così repentino da dare adito a tormentosi rimpianti e alla consapevolezza di aver commesso irreparabili errori. Usa, dunque, il regista la strada del romanticismo che gli permette di far leggere allo spettatore dentro l’animo di Cheyenne, il protagonista del film, e di metterne in luce quegli stati d’animo che sono universali e accomunano tutti gli uomini. C’è romanticismo nell’andatura lenta, a piccoli passi di Cheyenne, e nell’ascoltare quello che il cuore gli dice, nel volgere lo sguardo al suo passato e nel ricordare gli insegnamenti ricevuti, gli affetti dimenticati, nella spontaneità delle sue manifestazioni. C’è romanticismo nella descrizione di una brutta notizia – il padre che abita lontano è in fin di vita –, che gli fa affiorare in modo turbolento alla mente il triste ricordo del suo rapporto con la figura paterna con cui da trent’anni non si parla, c’è romanticismo nei rapporti interpersonali del protagonista.
Cheyenne, è una famosa rockstar cinquantenne, ormai in pensione, che ama portare una folta capigliatura e truccarsi come una donna, vestendo così una maschera che annulla la sua personalità, perché la maschera (“maschera” dal greco prosopon assume il significato in latino di persona e, come pronome indefinito nel francese personne, il significato di “nessuno”) annulla, nasconde la personalità individuale.
Cheyenne intraprende allora un lungo viaggio da Dublino a New York, per assistere il padre durante gli ultimi istanti di vita. Prende la nave perché ha paura dell’aereo. Arriva per questo in ritardo. Trova il padre ormai morto. Sente un vuoto nel suo animo, allora, che cerca di colmare proseguendo nella ricerca affannosa di un vecchio ufficiale nazista, ricerca che il padre di origine ebrea aveva intrapreso per vendicarsi dell’umiliazione ricevuta durante la sua prigionia in un campo di concentramento, al tempo della seconda guerra mondiale. Cheyenne, dunque, incomincia un viaggio, che, a dirla con il filosofo Schopenauer, rappresenta la ricerca di se stesso e dell’affetto che forse il padre nutriva per lui, dunque la ricerca di un bene infinito. Durante questo viaggio, infatti, gli torna in mente l’età giovanile caratterizzata da una profonda distrazione che non gli ha fatto cogliere l’essenziale dei comportamenti umani ma lo ha diretto verso il superfluo e l’effimero, si rammenta dei valori che il padre voleva trasmettergli, come la perseveranza e la riconoscenza, e comprende ora cosa vuol dire umiliazione, annichilimento della dignità umana, distruzione della personalità individuale. Soltanto la vendetta può emendare il danno psicologico e fisico subiti dal padre. La vendetta genera odio, e l’odio induce alla guerra, alla morte, all’eliminazione fisica dell’avversario. Meglio un’altra fine molto più giusta e più umanamente condivisibile, quella di infliggere al tormentatore altrettanta umiliazione: costringerlo a stare completamente nudo in mezzo alla neve. Cheyenne, dopo aver raggiunto lo scopo del padre, torna dal viaggio, si toglie il trucco e si taglia i capelli, trasformandosi così all’età di cinquant’anni da bambino a uomo.
Sean Penn, premio Oscar 2009, interpreta magistralmente Cheyenne mentre Frances
McDormand
, anche lei premio Oscar 1997, impersona la moglie Jane.

martedì 20 marzo 2012

La famiglia in crisi descritta nel film “Posti in piedi in paradiso” di Carlo Verdone



Titolo: Posti in piedi in paradiso
Regia:Carlo Verdone
Produzione: Italia 2012
Cast: Carlo Verdone, Micaela Ramazzotti, Marco Giallini, Pierfrancesco Favino, Diane Fleri, Nicoletta Romanoff, Maria Luisa De Crescenzo, […]

Carlo Verdone, come regista, dimostra di avere raggiunto quasi la pienezza artistica con questa commedia, a volte esilarante a volte immalinconente, in cui descrive in modo pressoché realistico uno spaccato della famiglia moderna con i suoi problemi più frequenti: liti di coppia con i relativi problemi dei figli e di mantenimento, e separazioni. Vi è il dramma di tre uomini sfigati, squattrinati e senza lavoro, ognuno con problemi connessi con i figli e in lite con le rispettive mogli per motivi futili, irrilevanti, senza significato, inconsistenti che mettono in risalto che oggi le separazioni e i divorzi sono una questione di moda, uno stereotipo da rispettare a tutti i costi. Se la coppia fosse legata da vero amore non si arriverebbe alla separazione definitiva creando tormenti alle future generazioni. Vi è il dramma di tre mariti, Ulisse Diamanti (Carlo Verdone), Fulvio Brignola (Pierfrancesco Favino) e Domenico Segato (Marco Giallini), che per caso si trovano a convivere nello stesso appartamento e che cercano con tanti sotterfugi ed espedienti di tirare a campare senza possibilità alcuna di porsi il problema del domani. In questo miscuglio eterogeneo si inserisce per caso la bravissima Micaela Ramazzotti, come al solito prorompente nella sua magnifica e sprizzante bellezza, che veste la parte di una cardiologa, Gloria, che flirta con Ulisse, anche lei con un fallito matrimonio molto sofferto alle spalle che la resa impulsiva e irrefrenabile.
Il film soffre verso l’ultima parte in cui si nota con evidenza che Carlo Verdone cerca di dilungarsi facendo tira e molla e puntando non sulle storie in sé ma piuttosto sui caratteri dei personaggi. Cerca di dare, alla fine, una soluzione agli attuali problemi che attanagliano buona parte delle famiglie italiane: il ritorno alla famiglia unita tradizionale.

venerdì 16 marzo 2012

Nel film “Come tu mi vuoi” un profilo della società moderna dove non si salva nessuno.





Titolo: Come tu mi vuoi
Regia: Volfango De Biasi
soggetto e sceneggiatura: Volfango De Biasi
Produzione: Italia, 2007
Cast: Cristiana Capotondi, Nicolas Vaporidis, Luigi Diberti, Elisa Di Eusanio, Paola Carneo, Giulia Steigerwalt, […]

Ho rivisto questo film per la seconda volta dopo cinque anni dalla sua uscita dandone una chiave di lettura ben diversa dalla prima: la descrizione che il regista fa della nostra società è profondamente grave, molto pessimistica. Non c’è etica, non c’è morale, non c’è virtù, non c’è onestà, non c’è integrità nei comportamenti della gente. Non si salva nessuno. Sia dall’una (i poveri) che dall’altra parte (i ricchi) della barricata, nessun vincitore emerge. Tutti perdenti. È perdente Giada (Cristiana Capotondi), studentessa universitaria di Sociologia diligente e contegnosa, tutta casa e università, che cerca con lo studio di riscattare la sua origine umile e che, trovandosi in difficoltà economiche, si mette a dare lezioni private e a fare la cameriera in una trattoria, dove all’insaputa del proprietario arraffa qualche spicciolo come se niente fosse. È perdente Riccardo (Nicolas Vaporidis), studente universitario anche lui frequentante la stessa facoltà di Giada senza alcuna voglia di studiare, con tanti soldi in tasca, amante della “bella vita”, che continuamente bighellona con degli amici sfaticati come lui. Fin qui il film procede bene, ma le cose si modificano, tendendo verso una sentimentalità esagerata e inverosimile, non appena Giada e Riccardo si incontrano. I due giovani, pur appartenendo a due livelli sociali diversi che non hanno niente in comune, per caso fanno conoscenza quando lei pubblica nella bacheca universitaria l’annuncio con il quale informa che conferisce lezioni private, di cui lui viene a conoscenza contattandola perché ne ha bisogno. Attorno a questo incontro il regista costruisce una storia, anzi una fiaba dei giorni nostri, poco credibile, mirabolante, miracolistica, ovviamente con un lieto fine. Pur partendo da una premessa impegnativa di denuncia sociale e di mancanza di valori, il regista si perde poi nei meandri della superficialità che caratterizza i comportamenti dei giovani contemporanei.

lunedì 12 marzo 2012

Nel film docu-fiction “Cesare deve morire”, i fratelli Taviani dicono come la Cultura può migliorare gli uomini.



Titolo: Cesare deve morireRegia: Paolo e Vittorio TavianiMusica: Giuliano Taviani e Carmelo TraviaProduzione: Italia 2012
Cast: Salvatore Striano, Cosimo Rega, Antonio Frasca, Giovanni Arcuri, Juan Dario Sonetti, Rosario Majorana, Vittorio Parrella, Vincenzo Gallo, Francesco Carusone, Gennaro Solito, […]

Il film di Paolo e Vittorio TavianiCesare deve morire”, che è stato premiato con l'Orso d'Oro al Festival di Berlino 2012, è un docu-fiction tratto liberamente dalla tragedia shakesperiana “Giulio Cesare”, girato tra i corridoi, le celle e il cortile del carcere di Rebibbia, e messo in scena nel piccolo teatro interno al carcere. I personaggi del dramma sono stati affidati ad alcuni detenuti, attori all’uopo selezionati, che hanno recitato con i propri dialetti di appartenenza, il romanesco, il napoletano e il siciliano per rendere ancor più sciolta la loro inconsueta prestazione. Detenuti che secondo i due registi sono “persone che portano con sé delle colpe, ma che sono e restano sempre degli uomini”, e che, partecipando alla realizzazione di questo film in prima persona, hanno dato quel vigore, perduto con la privazione della libertà, alla loro sfortunata esistenza. Scelta originale e intelligente questa dei superlativi registi, che è stata utile per far esprimere a ogni detenuto la propria personalità sulla base dell’esperienza personale e farlo avvicinare pian piano alla cultura, senza costringerlo ad usare la lingua italiana che non gli avrebbe fatto sicuramente emergere e sfolgorare l’umanità latente. È come se la recitazione in “Cesare deve morire” per ogni detenuto fosse stata una trasferta verso la riabilitazione, verso il riscatto che la società non è riuscita a concedergli. Salvatore Striano è stato eccezionale nell’interpretare, indossandone le vesti e la maschera, la figura di Bruto, artefice della congiura che nel pugnalare, assieme agli altri congiurati, Cesare (ruolo interpretato da un altro detenuto, Giovanni Arcuri la cui prestanza fisica ben si è adattata al personaggio), mi ha fatto ritornare alla mente i tempi del liceo quando tradussi la frase tutta in vocativo “Quoque te, Brute, fili mi”, “Anche tu, o Bruto, figlio mio”, che Cesare dice morente guardando il suo figlio adottivo Bruto. La potenza interpretativa di Striano è stata talmente straordinaria e vigorosa che ne ha messo in risalto il pathos e l’innata capacità gestuale e recitativa inconsapevolmente posseduti.
Ogni azione del film ed ogni frase sono state ben dosate. Soprattutto quella frase detta alla fine dal detenuto che ha interpretato Cassio "Da quando ho conosciuto l'Arte, questa cella è diventata una prigione" è considerevole ed eloquente, in quanto l’Arte riesce a far comprendere ai detenuti, che hanno recitato in questo film, cosa sia la libertà perché ha contribuito a far emergere tutta quell’umanità che è dentro ognuno di loro e li ha resi capaci di saper “leggere” la realtà, in cui vivono o in cui sono vissuti, senza veli. Quella frase, secondo il mio punto di vista, è anche una metafora riferita a chiunque, anche a chi vive normalmente in libertà, perché soltanto la Cultura permette ad ogni uomo di interiorizzare l’Arte che gli consente di “liberarsi” dai condizionamenti esterni e dall’omologazione sociale che, tra l’altro, creano in lui, tramite i media, false concezioni ed errati comportamenti che lo ingabbiano irreversibilmente in un contesto da cui è difficile uscire.

venerdì 2 marzo 2012

Nel film “Un giorno questo dolore ti sarà utile” di Roberto Faenza la storia di un giovane disadattato nell’attuale società postmoderna





Titolo: Un giorno questo dolore ti sarà utileRegia: Roberto FaenzaAutore libro: Peter CameronSceneggiatura: Roberto Faenza, Dahlia HevmanMusica: Andrea Guerra
Produzione: Italia, USA, 2011
Cast: Toby Regbo, Marcia Ray Garden, Peter Callagher, Ellen Burstyn, Lucy Liu, Stephen Lang, Deborah Ann Woll, […]

Vedendo questo film mi sono ricordato dei lontani anni trascorsi quando, ancora virgulto, lessi Il giovane Holden (The Catcher in the Rye) di J.D. Salinger, romanzo che mi scosse profondamente, anche se in modo inconscio, e che secondo me fu un’anticipazione di ciò che sarebbe successo in seguito con i moti sessantottini, anche se scritto più di un ventennio prima (1945). Mi ricordo che lo lessi tutto d’un fiato perché fui attratto dalle prime righe del romanzo “Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quella baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne.[…] (trad. Adriana Monti, edizione speciale per la Repubblica, 2002). Il film è tratto, però, dal libro omonimo di Peter Cameron (edito da Adelphi, 2007), anche questo un romanzo di grande successo, il cui titolo è la traduzione di un verso della raccolta di elegie amorose, Amores, la prima opera di Publio Ovidio Nasone, poeta latino (43 a.C.-18 d.C.): Multa diuque tuli; vitiis patientia victa est;/cede fatigato pectore, turpis amor!/ scilicet adserui iam me fugique catenas,/ et quae non puduit ferre, tulisse pudet./ vicimus et domitum pedibus calcamus amorem;/ venerunt capiti cornua sera meo./ perfer et obdura! dolor hic tibi proderit olim;/ saepe tulit lassis sucus amarus opem. Il regista Roberto Faenza nel film traccia il carattere del giovane James Sveck (Toby Regbo) che, ancora diciassettenne irrequieto pensa continuamente alla morte, manifesta un anticonformismo innato ed una grande incapacità di adattamento alla società cui appartiene, della quale non condivide pressoché nulla. Non aderisce all’opulenza. Non partecipa al consumismo. Non approva la vita frenetica e l’arrivismo. Dissente dall’omologazione sociale. Non si trova per nulla d'accordo con il comportamento dei suoi coetanei che assumono atteggiamenti non consoni al suo modo di essere. Viene, infatti, in contatto durante una gita con giovani esagitati, reprensibili, biasimevoli, drogati, maleducati, dai quali rifugge senza chiedersi se stesse creando problemi alla sua insegnante accompagnatrice. Si accorge anche, a dirla con Socrate, che in questa società gli individui si preoccupano molto di ciò che possiedono e quasi per niente di ciò che sono. E i suoi genitori ne sono un esempio palesemente eclatante. Vive assieme alla sorella Gillian Sveck (Deborah Ann Woll) che flirta con un docente universitario molto più grande di lei e che segue nel comportamento le orme della madre. Periodicamente pranza con il padre Paul Sveck (Peter Callagher), un ricco avvocato dongiovanni alla ricerca di avventure amorose e che per ringiovanirsi ricorre al lifting. Vive con la madre Marjorie Dunfur (Marcia Ray Garden), un’artista che, con il modo come fa presentare le sue opere sui generis, contraddice il proprio modo di vivere che è al passo con i tempi: divorziata, irrequieta, indifferente, risposata con un uomo, giocatore d’azzardo, Barry Rogers (Stephen Lang), da cui si separa dopo un giorno di matrimonio, e in lite con la madre Nanette (Ellen Burstyn), la quale è l’unica della famiglia che comprende e asseconda suo nipote James e al quale, prima di morire, in un biglietto scrive tra l’altro … “un giorno questo dolore ti sarà utile”… per significare che i suoi insegnamenti saranno gli unici a favorirlo nella vita.
Roberto Faenza con questo film crea in James un eroe del nostro tempo, alla stessa stregua di don Dino Pugliesi (Luca Zingaretti) del film Alla luce del sole (2004) o come il Pereira (Marcello Mastroianni) del film Sostiene Pereira (1995), che lotta contro questa nostra società autoritaria, incoerente, fluida, lontana dal ricercare il vero senso della vita, che risulta insensata, balorda, assurda, mafiosa. Disumana! Ma c’è un auspicio che è l’anima del film. È impossibile cambiare il mondo perché ognuno dovrebbe cambiare il proprio modo di esistere, ma c’è però una possibilità: far tesoro di appropriati insegnamenti anticonformisti e metterli in atto.