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domenica 27 gennaio 2013
Con il film “Lincoln”, il regista Steven Spielberg fa una lezione sull’uguaglianza e sulla libertà dei popoli e sull’etica della politica.
Titolo:
Lincoln
Regia:
Steven Spielberg
Soggetto: Doris Kearns Goodwin
Sceneggiatura:
Tony Kushner, John Logan, Paul Webb
Musica:
John Williams
Produzione:
USA 2012
Cast:
Daniel Day-Lewis, Sally Field, David Stratairn, Joseph Gordon-Levitt, James
Spader, Hal Holbrook, Tommy Lee Jones, Lee Pace, David Oyelowo, Jackie Earle
Haley, Bruce McGill, Tim Blake Nelson, Joseph Cross, Jared Harris, Peter
McRobbie, Gulliver McGrath, Gloria Reuben, Walton Goggins, […]
Il film “Lincoln” di Steven Spielberg descrive il
susseguirsi di dialoghi stringenti, di compromessi e di intrighi che
investirono il presidente Lincoln e il suo staff durante i fatti che
precedettero, a partire dal 5 gennaio 1865, la discussione del XIII Emendamento
alla Costituzione degli Stati Uniti d’America con il quale venne abolita la
schiavitù dei "negri". La sua definitiva approvazione da parte della Camera con 119
voti favorevoli e 56 contrari si realizzò
il 31 gennaio 1865. Finalmente fu avviato il processo graduale di uguaglianza tra
“negri” (oggi questo termine è in disuso ed è stato sostituito da “neri”) e
bianchi, scaturito paradossalmente da un concetto geometrico che Lincoln aveva acquisito
leggendo addirittura il libro “Elementi” di Euclide, filosofo greco vissuto tra
il 323 a.C.
e il 286 a.C.. Si trattava, in
particolare, dell’assioma che afferma che "Tutte le cose che ad una
medesima cosa sono uquali, fra loro sono uquali". L’assioma è
un’affermazione generale a cui si assegna il significato di verità indiscussa e
invariabile, da cui derivano per argomentazione logica altre affermazioni vere
su cui si fonda un relativo sistema di conoscenze. È nel concetto di
uguaglianza insito il discorso di libertà, cioè se due uomini sono uguali,
l’uno non può essere schiavo dell’altro, perché la schiavitù crea
disuguaglianza. Neri e bianchi in quanto uomini e per questo uguali hanno pari
dignità di fronte alla legge sia in termini di diritti che di doveri. Più volte
Lincoln, infatti, aveva espresso la sua convinzione che dall’uguaglianza deriva
la libertà, tant’è che in una lettera del 1862 egli scrive: “…non ho intenzione di modificare la mia più
volte ribadita volontà personale che tutti gli uomini possano essere liberi.”
Assieme
al discorso politico molto intenso e complesso che investe molti personaggi, e
alla contrapposizione dialettica di idee tra quella radicale dell’intransigente
abolizionista Thaddeus Stevens (Tommy Lee Jones), quella diplomatica ma
inconcludente del segretario di Stato William Steward (David Stratairn) e quella incerta del vecchio leader repubblicano Preston
Blair (Hal Holbrook), il regista mette in evidenza i metodi, in parte
moderati e in parte discutibili ma efficaci, direi di stampo quasi
machiavellico, adottati da Lincoln per raggiungere il suo umano e sacrosanto
obiettivo, quello della liberazione dei negri dalla schiavitù e dalle
nefandezze e dallo sfruttamento che questi avevano subito per più di due secoli
e mezzo. Basta vedere il bel film “Django Uchained” di Quentin Tarantino, dove
la crudeltà e la disumanità con cui venivano trattati i negri vengono toccate
con mano nella loro durezza e crudezza, che crea nello spettatore un sentimento
di ripugnanza e di esecrazione.
Attorno
al discorso politico, dunque, ruota tutto il film dove risaltano anche la
grandezza e la genialità del leader Lincoln miste alla forza ironica, alla vena
umoristica e allo spessore umano dell’uomo Lincoln, assieme al susseguirsi
delle scene tragiche e disumane dovute alla guerra di secessione, dei problemi
familiari con il figlio maggiore Robert (Joseph Gordon-Levitt) e con la moglie Mary Todd (Sally Field) e dei continui dialoghi
che richiedono allo spettatore una continua attenzione. Spielberg arriva,
addirittura, a gestire Lincoln (Daniel Day_Lewis) nella parte finale del film,
a mio parere, come “un deus ex machina”
della tragedia greca antica per raggiungere il suo obiettivo quando gli fa
affermare che "Io sono il presidente degli Stati Uniti d'America investito di un
potere immenso! Voi mi procurerete i voti!" Una scena indimenticabile
che fa comprendere come un leader degno di questo nome, come lo è stato
Lincoln, debba a volte intervenire drasticamente sul suo staff per raggiungere
il proprio fine.
L’attore Daniel Day-Lewis, che
interpreta magnificamente e in modo magistrale Lincoln, in una recente
intervista da lui rilasciata al settimanale “Il venerdì di Repubblica dell’11
gennaio 2013”
e scritta da Antonio Monda, per esprimere un giudizio su Lincoln, il cui
personaggio ha studiato approfonditamente per comprenderne il carattere, il
comportamento e la cultura, cita un pensiero di Lev Tolstoj per dire che la
grandezza dei grandi uomini che hanno fatto la storia dell’uomo “impallidisce rispetto al sole di Lincoln. Il
suo esempio è universale… la grandezza di quello che ha fatto rimarrà” fino
alla fine del mondo.
Questo film è anche importante
soprattutto per far comprendere allo spettatore la situazione politica italiana
del recente ventennio trascorso, perché Spielberg ha voluto sottolineare cosa
significa fare vera politica, nel senso etimologico della parola, e far
mettergli a confronto il passato remoto con il passato recente e anche con il
presente che sono caratterizzati da una politica degenerata eticamente, da
corruzione dilagante e da un’immoralità palese che non ha termini di paragone.
Il film ha avuto undici
nomination al premio Oscar 2013, tra cui uno come miglior film, uno a Steven
Spielberg per la regia impeccabile, e tre come migliori attori rispettivamente
a Daniel Day-Lewis ( a cui è stato assegnato pure un Golden Globes 2013), a Tommy
Lee Jones e Sally Field. A questi premi si aggiungono dieci nomination al
premio BAFTA 2013 (British Academy of Film and Television Art).
mercoledì 23 gennaio 2013
Sergio Rubini con il film “L’uomo nero” descrive con rimpianto i favolosi anni della fanciullezza nella terra natia.
Titolo:
L’uomo nero
Regia:
Sergio Rubini
Soggetto:
Sergio Rubini
Sceneggiatura:
Carla Cavalluzzi, Domenico Starnone
Musica:
Nicola Piovani
Produzione:
Italia, 2009
Cast:
Sergio Rubini, Valeria Golino, Riccardo Scamarcio, Fabrizio Gifuni, Guido
Giaquinto, Anna Falchi, Margherita Buy, Maurizio Micheli, Mario Maranzana, […]
Ieri
sera è stato trasmesso su Rai Movie, in prima serata, questo bel film “L’uomo
nero” diretto da Sergio Rubini che ne è anche l’attore principale (Ernesto
Rossetti). Vi si descrivono la vita, la grande passione per il pittore
impressionista Paul Cezanne, il fervore impetuoso e l’entusiasmo vorticoso per
la pittura di Ernesto Rossetti, di professione capostazione, ma pittore
nell’animo. Sentimenti e comportamenti questi che ritornano alla mente del
figlio Gabriele (Fabrizio Gifuni) che ritorna nel paese natio, in Puglia, dal Nord per la morte del
padre. Gabriele, durante la notte che precede il funerale, si ricorda del tempo trascorso, tra la fine degli anni
cinquanta e gli inizi degli anni sessanta, quando ancora bambino di sei-sette
anni (Guido Giaquinto) seguiva con grande attenzione le vicissitudini, le
amarezze e i dispiaceri soprattutto del padre e anche della madre Franca
(Valeria Golino), e le relazioni che aveva con loro: pessime col padre che
odiava, e ottime con la madre che lo accudiva e gli manifestava l’amore materno.
Gabriele si ricorda anche dell’amicizia che aveva instaurato con l’amato zio
Pinuccio (Riccardo Scamarcio) che lo affascinava e lo proteggeva, e della paura
che gli suscitava un fantasioso “uomo nero” avvolto nel mistero che si
presentava tutte le volte che si trovava solo in chiesa o nel sottopassaggio di
una strada o in luogo isolato, al buio. Si rammenta dell’incipiente amore
fanciullesco verso la sua coetanea, la bella e affascinante Anna. Gli ritornano in mente le frustrazioni
del padre dovute alla mancanza di visibilità e di successo, gli stimoli ipocriti
di Donna Valeria Giordano (Anna Falchi) verso il padre che deve allestire una mostra
di suoi quadri “per dare una svegliata a questo paese di terroni!”, le
umiliazioni che il padre subiva da parte del direttore Dalò (Mario Maranzana), che
si spacciava per critico d’arte, lestofante e imbroglione, che millantava coadiuvato in questo dal viscido avvocato Pezzetti (Maurizio Micheli).
Le rimembranze del tempo passato, come un
viaggio di ritorno alle origini, tuttavia, rendono chiare a Gabriele
fraintendimenti, giudizi e verità e segreti del padre che gli permetteranno di
scoprire la verità vera e di far rinascere nel suo cuore l’amore del figlio verso
il padre. Un film nel complesso bello e
divertente, anche coinvolgente ben diretto come è nello stile di Rubini, con
bravi attori tra cui emerge anche se per una breve parte Margherita Buy, nella
parte di Anna adulta.
sabato 19 gennaio 2013
Con “Django Unchained”, Tarantino confeziona con il suo inconfondibile stile un film divertente e ricco di significati.
Titolo:
Django Unchained
Regia
e sceneggiatura: Quentin Tarantino
Produzione:
USA 2012
Cast: Jamie Foxx, Christofh
Waltz, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washington, Walton Goggins,
James Remar, Don Jonhson, […]
Quest’ultimo
film “Django Unchained” di Quentin Tarantino vuole essere un omaggio al film western
italiano “Django” (1966) diretto dal regista italiano Sergio Corbucci e
interpretato da Franco Nero che in questo film è un cameo, cioè che interpreta
una piccola parte, quella di Amerigo, amico del crudele Calvin Candie (Leonardo
DiCaprio) invitato ad assistere ad una lotta cruenta tra due schiavi negri. Ma
vuole essere, con la canzone “Ancora qui” cantata da Elisa Toffoli, anche un
omaggio a Ennio Morricone che compose la bellissima musica del primo film
western italiano “Per un pugno di dollari” (1964) di Sergio Leone, con il quale
si avviò il prolifico filone di film spaghetti western, da cui il regista
prende diversi spunti. Non è un caso, infatti, che la colonna sonora comprenda
brani di film come il citato “Django, “Lo chiamavano Trinità” e altri, o ancora
lo stesso Quentin Tarantino è un cameo che scoppia in una miriade di pezzi con
la dinamite che portava seco.
“Django
Unchained” è un film completo perché affronta tanti temi sociali importanti e attualissimi,
e rientra nell'inconfondibile stile beffardo e bizzarro con il consueto
linguaggio iperbolico, se pur violento, ma quietamente esilarante del regista di "Pulp Fiction" (1994). Il
susseguirsi di ogni scena, di ogni azione, di ogni frase detta, di ogni sguardo, dall’inizio sino alla fine, attrae
lo spettatore e lo incolla sulla poltrona costringendolo a non distrarsi
neppure per un attimo per fargli cogliere il suo messaggio ironico che è contro
il cinismo, contro la sopraffazione dell’uomo sull’uomo e quindi contro il
razzismo e la schiavitù, contro l’orgoglio umano causa di tante nefandezze.
Al
tempo stesso però, Tarantino trasmette un messaggio che esalta la libertà,
l’amicizia e l’amore, sentimenti e concetti per i quali l’uomo mette in gioco
tutto, anche la sua vita. Per questo il regista-sceneggiatore ha preso spunto nella
stesura della scenografia dal mito parzialmente modificato di Sigfrido, l’eroe nordico
che libera la sua amata Brunilde, prigioniera del feroce drago. È, quindi, un film
sull’amore, quel forte sentimento impulsivo carico di attaccamento verso una
persona o verso un ideale. Ma è anche un film sull’amicizia, l’altro sentimento
affettivo, profondo e vicendevole tra due individui, che, insieme all’amore, è
caratterizzato da forte emotività e spirito sociale, ed è basato su un rapporto
biunivoco di rispetto e di stima. Cicerone nel suo saggio sull’amicizia
“Laelius de amicizia” affronta il tema su questo sentimento e scrive che
“amicus certus in re incerta cernitur” (il vero amico si manifesta nei momenti
di bisogno). Ancor prima lo stesso Aristotele tratta sull’amicizia che
considera una qualità e un bene indispensabile
all'uomo che non può vivere senza amici, importanti sia nella fortuna che nella
sfortuna, nel privato che nel pubblico, nella giovinezza che nella senilità.
E
sul concetto di libertà, è bene citare ancora Cicerone che in “Repubblica”
afferma che “La libertà non si basa nell'avere un padrone probo, ma nel
non averne”, ma anche il
filosofo inglese Isaiah Berlin che, in “Quattro saggi sulla libertà”
(Feltrinelli, Milano, 1989), sostiene che “L'essenza della libertà è
sempre consistita nella capacità di scegliere come si vuole scegliere e perché
così si vuole, senza costrizioni o intimidazioni, senza che un sistema immenso
ci inghiotta; e nel diritto di resistere, di essere impopolare, di schierarti
per le tue convinzioni per il solo fatto che sono tue. La vera libertà è
questa, e senza di essa non c'è mai libertà, di nessun genere, e nemmeno
l'illusione di averla”.
I
concetti su esposti che abbracciano la sfera sentimentale, filosofica e sociale
del sapere umano sono tutti esposti ed esaltati magnificamente nel film che
descrive la storia di Django (Jamie Foxx), un negro schiavo, intorno alla metà
dell’ottocento negli Stati Uniti d’America del Sud, il quale viene liberato da
un tedesco, il dottor King Schultz (interpretato magnificamente da Christofh
Waltz) che da dentista diventa un cacciatore di taglie. Tra i due si instaura
un sentimento di amicizia molto forte, tant’è che attraverso una serie di
peripezie, di uccisioni di ricercati che spruzzano sangue da tutte le parti,
anche sulla lanugine del bianco cotone, i due riescono a farsi ospitare da un
grande latifondista Calvin Candie che detiene per la coltivazione del cotone
una miriade di schiavi negri, tra cui Brumilda (Kerry Washington), moglie di
Django, con l’intento di liberarla. In questo contesto, Tarantino mette in
evidenza la violenza inaudita e disumana delle azioni di Candie, esaltata soprattutto
dalla lotta fratricida tra due negri, dall’aver fatto sbranare dai suoi cani
senza batter ciglio un negro che aveva cercato di fuggire, dall’aver completamente plagiato così
bene il suo maggiordomo Stephen (Samuel L. Jackson) da farlo schierare sempre
dalla sua parte e da difenderlo in ogni condizione.
“Django Unchained”
è un film perfetto per la scenografia, per i diversi colpi di scena, per la
bravura degli attori (tra i quali si distinguono, primo fra tutti Christofh
Waltz, e in particolar modo Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson e Jamie Foxx), per l’ironia e per il linguaggio paradossale e
tragicomico usato. Il film ha, infatti, ottenuto cinque nomination al premio Oscar
2013
giovedì 17 gennaio 2013
Il regista Paul Thomas Anderson in “The master” indaga sui comportamenti umani determinati dalla solitudine e dalla psicolabilità.
Titolo:
The master
Regia
e sceneggiatura: Paul Thomas Anderson
Produzione:
USA 2012
Cast: Joaquin Phoenix, Philip
Seymour Hoffman, Amy Adams, Laura Dern, Ambyr Childers, Rami Malek, Jesse
Plemons, Lena Endre, […]
Non
c’è che dire se non quello di constatare che questo film "The master" del regista Paul
Thomas Anderson è straordinario e singolare nella originale sceneggiatura
perché mette in evidenza come la ciarlataneria e il conseguente linguaggio insignificante, da una parte, e i postumi della guerra,
dall’altra, possano creare squilibri irreparabili sugli individui, soprattutto
su quelli più deboli sia psichicamente che culturalmente. Il film palesa un’indagine
sulle meschinità, sulla psiche e sui comportamenti umani che non sempre
risultano consoni e adeguati alla normalità del vivere comune. Anderson, infatti, descrive
ancora una volta la solitudine dell’uomo alla rincorsa delle sue ossessioni e delle
sue testardaggini che lo allontanano dal dare un significato consono al vero senso
della vita. Come nel film “Il petroliere” (2008, con Daniel Day-Lewis), dove si
descrive la vita solitaria, l’attitudine arrivista e senza scrupoli di un
mercante di petrolio, così in “The master” il regista evidenzia la solitudine e
il disorientamento di Freddie Quell (Joaquin Phoenix), il protagonista del
film, il quale, reduce dalla guerra che lo rende labile mentalmente e ossesso
sessualmente, va alla ricerca di tutto ciò che possa dare sfogo al suo istinto erotico
represso e bloccato dalla privazione, tra cui le creazioni sulla spiaggia di figure femminili di sabbia
accanto alle quali Freddie si sdraia o le masturbazioni sul mare, e di tutto
quello che possa indirizzare il proprio istinto violento in comportamenti nel
complesso tollerabili. Per questa psicolabilità, Freddie è sottoposto ad
analisi e a cure mediche molto generiche che non danno esito positivo e, una volta congedato,
incomincia a fare un lavoro dopo l’altro, che è costretto, ogni volta, a
lasciare per la sua irritabilità e a fuggire per la sua forte perdita di
controllo. Casualmente una notte scappando, si rifugia su un battello dove incontra
Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman) che si professa scrittore, medico,
capitano, e tant’altro, ma che in realtà è un mistificatore di successo.
Lancaster è un uomo dotato di grande fascino, che per il suo carisma ha un
effetto attrattivo sulle persone tant’è che riesce a circondarsi di una sfilza di
creduloni, poveri culturalmente, che lo seguono indiscutibilmente. Freddie è uno
di questi. La scena del film che ritrae Lancaster, che si incammina, seguito da
Freddie a passo pesante e concorde, dopo che i due hanno dissepolto una cassetta
contenente un libro di Lancaster ancora non pubblicato, descrive encomiabilmente e con forza
la dipendenza del secondo dal primo. Freddie, tuttavia, sente il bisogno
inconscio di svincolarsi da questa dipendenza e questo è dimostrato da un’altra
bellissima scena del film dove Freddie corre veloce con una moto dileguandosi e
quindi fuggendo da Lancaster.
A mio parere, il film è anche un atto di accusa contro
la guerra e contro le droghe, (in questo caso contro l’alcool) e anche contro
gli impostori che provocano, ognuna per proprio conto, delle deviazioni
psichiche irreversibili che si riflettono sulla società danneggiandola. Il regista
di questo film come già detto è Paul Thomas Anderson, di cui Daniel Day-Lewis,
intervistato da Antonio Monda su “Venerdì” di “la Repubblica” in merito
alla sua ultima interpretazione nel film “Lincoln”, dice che è “un magnifico
regista consapevole del suo talento che non ha paura di rischiare ed esagerare
in maniera iperbolica”. Un giudizio
che condivido pienamente.
Il film è stato presentato alla Mostra Internazionale
di Arte cinematografica 2012 di Venezia dovesono stati assegnati il “Leone d’argento” per
la regia a Paul Thomas Anderson e la “Coppa Volpi” sia Joaquin Phoenix sia a
Philip Seymour Hoffman per la migliore intepretazione maschile. Joaquin Phoenix
è diventato attore famoso dopo la magnifica interpretazione dell’imperatore
romano Comodo nel film “Il gladiatore”(2000) di Ridley Scott. Philip Seymour
Hoffman, invece, è stato recentemente interprete del film “Le idi di marzo” (2011)
acnh'esso presentato alla mostra del cinema di Venezia.
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venerdì 11 gennaio 2013
Oggi ci ha lasciato Mariangela Melato, una grande attrice da non dimenticare.
Oggi è morta, dopo una lunga malattia, l’attrice Mariangela Melato. Aveva 71 anni e, il 19 settembre prossimo ne avrebbe compiuti 72. E dispiace quando i migliori vanno via per sempre perché lasciano nel dolore e nella desolazione chi li ha voluti bene. E Mariangela Melato era una delle migliori attrici italiane.
Conobbi per la prima volta Mariangela Melato e le sue spiccate e poliedriche qualità di attrice valente e versatile quando andai a vedere il bellissimo film tragicomico di Lina Wertmuller, “Mimì metallurgico ferito nell’onore” (1972), dove interpretava “Fiore”, l’amante di Carmelo Mardocheo, recitato da un altro grande attore, Giancarlo Giannini. Per questo film le venne assegnato il Nastro d’Argento 1973 come migliore attrice, dopo aver ottenuto l’anno precedente, per la sua recitazione in un altro bel film “La classe operaia va in paradiso” (1972) di Elio Petri, il primo Nastro d’Argento della sua carriera. Mi piace ricordarla con i suoi primi più bei film, ora che ci ha lasciato, quando agli inizi degli anni settanta iniziava la sua brillante carriera di attrice cinematografica, che l’ha portata via via al successo e alla popolarità, facendola diventare un mito dello spettacolo italiano. Due anni più tardi, nel 1974, interpretava una ricca signora borghese di Milano, Raffaella Pavoni Lanzetti, sempre in coppia con Giancarlo Giannini (Gennarino Carundrio, il rozzo marinaio meridionale comunista a cui Raffaella si è assoggettata perdutamente per sesso e per amore) nel film che ritengo un capolavoro di Lina Wertmuller, “Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto”. Chi può dimenticarsi di quei dialoghi particolari, che da una parte (Raffaella Pavoni Lanzetti) avevano un linguaggio raffinato, aristocratico e lessicalmente ricco e dall’altra (Gennarino Carundrio) un linguaggio grezzo, rustico, volgare. Dialoghi che hanno divertito e che sono rimasti latenti nella mente dello spettatore, e dei quali riporto una breve parentesi.
<< Raffaella: “Sì ti prego amore, tu sei il mio
primo vero uomo…sodomizzami!”
Gennarino: “Senti un po’, brutta
fitusa borghese carugnona: ma tu lo fai apposta per farmi sentire ignorante con
‘ste parole difficili! Ma questa cosa che porcheria è, che nun te capisco? !
Che caspita sarebbe?” >>
Ovviamente la sua carriera successiva godrà di altri bei film che le permetteranno di ottenere tanti altri premi come migliore attrice:
- David di Donatello con i seguenti film: “La poliziotta” (1975) di Steno, “Caro Michele” (1977) di Mario Monicelli, “Il gatto” (1978) di Luigi Comencini, e “Aiutami a sognare” (1981) di Pupi Avati.
- Nastro d’Argento, in aggiunta a quelli già indicati, con i seguenti film: “Caro Michele” e “Aiutami a sognare”, e poi “Dimenticare Venezia” (1979) di Franco Brusati.
Verso la fine degli anni novanta, dopo essere stata brava interprete nel film “Un uomo perbene” (1999) di Maurizio Zaccaro e nel film di Mario Monicelli, “Panni sporchi” (1999), ritornò al teatro, la sua grande passione, dove ha mostrato fino agli ultimi tempi la sua grande versatilità di attrice, ballerina, cantante.
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giovedì 10 gennaio 2013
Il film “C’era una volta” è una storia fantastica raccontata con lo stile di Francesco Rosi
Titolo: C’era una volta
Regia: Francesco Rosi
Soggetto e sceneggiatura: Francesco Rosi, Giuseppe Patroni
Griffi, Tonino Guerra, Raffaele La
Capria
Musica: Piero Piccioni
Produzione: Italia, 1967
Cast: Sophia Loren, Omar Sharif, Dolores Del Rio, Leslie
French, Georges Wilson, Carlo Pisacane, Marina Malfatti, […]
Il film italiano C'era una volta liberamente tratto dal
libro “Lo cunto de li cunti” di
Giambattista Basile (1575-1632) descrive, alla maniera di una fiaba, la storia
d’amore di un principe spagnolo Rodrigo Fernandez (Omar Sharif) con una giovane
plebea, Isabella Candeloro (Sophia Loren), che interpreta un’ottima cuoca che
vive di espedienti. Questa giovane è protetta da un frate beato Giuseppe da
Copertino (Leslie French) che essendo in odore di santità svolazza sopra i tetti come fosse un
uccello e detta delle condizioni da rispettare a chiunque, al fine di far loro realizzare
certi sogni. Tra questi capita casualmente anche il principe Rodrigo. Per il
quale una di queste condizioni è quella che egli si deve far cuocere da
Isabella sette gnocchi che deve mangiare dal primo sino all’ultimo. La cosa,
tuttavia, non va a buon fine. Comunque tutto termina come ci si aspetta, lo
spettatore intuisce la fine del film: il principe Rodrigo, dopo tante peripezie
e tanti ostacoli superati brillantemente, sposa la popolana Isabella come per
dimostrare che l’amore non fa distinzione di ceto. In questo film, anche se ben
diretto, Francesco Rosi è lontano dal suo acume e dalla sua maestria dimostrata nei suoi
capolavori, tra cui è degno di nota sia il film di successo di pubblico che di critica Salvatore Giuliano (1962), per il quale ottenne l’Orso di Argento
al Festival del Cinema di Berlino 1962 e, nello stesso anno, il Nastro
d’Argento come migliore regista, sia Il momento della verità (1965) per il
quale ricevette il Davide di Donatello. Scena del film C'era una volta da ricordare che attrae
l’attenzione dello spettatore è quella del carosello finale.
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giovedì 3 gennaio 2013
Nel film “La migliore offerta” Giuseppe Tornatore teorizza la perenne dissertazione umana sulla verità e sulla falsità.
Titolo: La migliore offerta
Titolo originale: The Best Offer
Regia: Giuseppe Tornatore
Soggetto e sceneggiatura:
Giuseppe Tornatore
Musica: Ennio Morricone
Produzione: Italia, 2012
Cast: Geoffrey Rush, Jim Sturgess, Donald Sutherland, Sylvia Hoeks,
Philip Jackson, Dermot Clowley, Liva Kebede, Maximilian Dirr, Sean Buchanan […]
Bellissimo,
coinvolgente e singolare, questo ultimo film “La migliore offerta” del regista
siciliano Giuseppe Tornatore, un triller sentimentale che affronta un tema universale,
quello che coinvolge le persone nelle loro azioni quotidianamente: l’eterna
diatriba tra la realtà e l’apparenza, tra la sincerità e l’inganno, tra la verità
e la falsità, dove la verità viene simulata dalla falsità, o la falsità viene imitata
dalla verità. Tornatore, che con questo film si stacca dai legami della sua
terra natia, la Sicilia, crea magistralmente un’atmosfera da giallo perché
riesce a comporre un miscuglio tra queste due astrazioni, eterogenee tra esse,
così ben amalgamato che lo spettatore non riesce a distinguere l’una
dall’altra. Come avviene in un’opera teatrale, del resto. Il sostantivo
“persona”, infatti, che nel linguaggio comune si usa spesso per indicare un
individuo, deriva dalla parola che i Latini usavano per indicare la “maschera”
di legno che gli attori dell’antica Grecia indossavano durante le
rappresentazioni teatrali per interpretare i relativi personaggi.
Il
film è interessante anche per i suoi risvolti filosofici in quanto ruota
attorno al tema sulla "verità" (etimologicamente deriva dalla parola
greca alétheia, disvelamento) la
cui definizione venne data per la prima volta da Platone, anche se poi Aristotele
la tematizzò come oggetto di una sua trattazione filosofica. Nel “Il sofista”, Platone
distingue il filosofo, che è colui che dice il vero, dal sofista, cioè da colui
che, non essendo filosofo, invece afferma il falso simulandolo per vero. Aristotele
riprende la concezione del suo maestro e nella “Metafisica” sostiene che "il
vero e il falso non sono nelle cose, ma nel pensiero", cioè sono "una qualità del
pensiero" che però non dipendono dal pensiero ma dipendono in toto dal suo rapporto con la realtà. E lo stesso Aristotele
enuncia il principio di non-contraddizione della logica secondo il quale “è impossibile che lo stesso attributo, nel medesimo tempo,
appartenga e non appartenga al medesimo oggetto”, principio che, in
certo qual modo viene contraddetto, dallo stesso regista quando dice che “anche
in un falso c’è qualcosa di vero” o che il regista fa affermare nel film da una
protagonista del film, Claire (Sylvia Hoels): “in ogni falso si nasconde sempre
qualcosa di autentico”.
Virgil
Oldman (Geoffrey Rush) è un sessantenne battitore di aste molto abile, un
esperto d’arte di fama internazionale, amante accanito delle opere d’arte di
cui subdolamente fa incetta. Ha un carattere introverso, è misantropo e anche
misogino. Un giorno riceve una telefonata da Claire, una giovane donna che ha
ereditato una vecchia villa di cui vuole che le vengano valutati tutti gli
arredi al fine di venderli. Il fatto strano è che in tutti gli appuntamenti la
donna non si presenta mai apportando sempre delle motivazioni plausibili. Dai
diversi contatti telefonici, che inizialmente irritano Virgil, si instaura uno
di quei legami che esistono per la forza inconscia del cuore che imprime alla
mente l'instaurarsi improvviso e ammaliante di un pensiero amoroso, che rimane
latente, non consapevole, e che emerge nel momento più propizio. Come se si
formasse un filo invisibile tra l’uomo e la donna, conduttore di emozioni
vicendevolmente, biunivocamente, inconsapevolmente. Emozioni che si
autocatalizzano e che fanno sfociare l’uomo e la donna nel mare delle passioni
irrefrenabili, dove l'amore impera, quell’amore che è la colla dei sentimenti
di una coppia. Tant’è che Claire afferma “Qualunque cosa ci accada, sappi che
io ti amo!", rivolgendosi a Virgil.
Virgil
accetta l’incarico e, nel corso dei vari sopralluoghi, rinviene nella cantina della
villa dei pezzi di un ingranaggio che si
rivela essere parti di un automa di Jacques
de Vaucanson, uno scienziato vissuto nel secolo dei Lumi, autore di diversi
meccanismi robotici. A questo punto,
nel film è chiara la metafora della creatività
umana e di come questa possa essere utilizzata da ogni individuo per proprio
tornaconto “giocando” con i sentimenti umani. Manifestazione di ciò si trova
sia nelle parole di Billy (Donald Sutherland), l’amico complice di Virgil
Oldman, che afferma che "i sentimenti umani sono come le opere, si possono simulare" sia nella costruzione lenta e laboriosa, attraverso i vari ingranaggi che vengono trovati via via
nella villa che portano gradualmente alla
concretizzazione dell’automa di Vaucanson, grazie alla bravura del giovane
tecnico Robert (Jim Sturgess).
Giuseppe
Tornatore, che dimostra ancora una volta di essere un grande maestro del cinema
non solo italiano ma anche internazionale (chi può dimenticare i suoi film come
“Nuovo Cinema Paradiso” del 1988, “La leggenda del pianista sull’oceano” del
1998 o il meno fortunato “Baaria” del 2009) per la profondità e la peculiarità
dei temi affrontati, costruisce un film bellissimo, curato nei minimi
particolari, dai connotati veramente originali, e dirige un cast di attori
bravissimi tra cui spicca Geoffrey Rush (Oscar 1997 come “miglior attore” per
il film “Shine” e ottimo interprete del logopedista Lionel
Logue nel film "Il discorso del re" del 2011) con la colonna sonora dell’eccelso
maestro Ennio Morricone.
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