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mercoledì 18 settembre 2013
“Il mondo di Arthur Newman”mostra come non si può evadere dalla gabbia degli affetti
Titolo: Il mondo di Arthur Newman
Titolo originale: Arthur Newman
Regia: Dante Ariola
Sceneggiatura: Becky Johnston
Produzione: USA 2012
Cast: Colin
Firth, Emily Blunt, Anna Heche, Sterling Beaumon, Kristin Lehman, Phillip Troy
Linger, […]
Un uomo, Wallace Avery (Colin Firth), abbandonato dalla
moglie (Kristin Lehman), convivente con una donna (Anna Heche) che non ama e dalla
quale è amato, padre di un tredicenne Grant (Sterling Beaumon) che lo odia e
che non lo vuol vedere, fa un lavoro che non lo appassiona ma ama il golf.
Wallace vuole fuggire da quel mondo che lo opprime e dal quale vuole scomparire
per sempre. In definitiva vuole far morire Wallace e far nascere Arthur. Cambia vita e anche identità, dunque, facendosi
credere morto. Abbandona, per questo suo scopo, un po’ dei suoi effetti
personali in una spiaggia deserta dell’Oceano Atlantico. Assume, quindi, il
nome di Arthur Newman e, per caso, incontra una ragazza dai mille problemi
esistenziali e psichici, Mike (Emily Blunt) con la quale intraprende un
rapporto amoroso intenso. Al pari di Wallace/Arthur, anche Mike vuole cambiare
vita e identità. Vuole fuggire dai ricordi di una madre pazza, ormai morta, e
da una sorella gemella ricoverata in una casa di cura per malati mentali. Soprattutto
vuole fuggire da se stessa. In tutto il tempo che stanno insieme, Arthur e Mike
si spostano da un motel ad un altro, facendo anche delle incursioni presso case
private in assenza dei loro proprietari, dove manifestano tutta l’aria di
libertà ritrovata in amplessi condivisi e sinceri. Ad un certo punto, si
accorgono che gli manca qualcosa, gli manca il passato, gli mancano gli
affetti, gli manca la loro stessa vita. E questa mancanza li spinge a ritrovare
se stessi. Possono riacquistare ciò che
gli mancava?
“Il mondo di Arthur Newman” è un film che, solo
nella sua parte iniziale, fa ricordare “Il fu Mattia Pascal” di Luigi
Pirandello per una certa somiglianza tra la dicotomia Wallace/ Newman e quella
Pascal/Meis, che però nel procedere del film sfuma rapidamente. Wallace si trova
ingabbiato dalla sua stessa vita e vuole essere Arthur così come Pascal vuole
essere Meis. Wallace fugge dalla realtà verso il sogno rappresentato da Arthur
come Pascal che vola verso Meis. Ne “Il fu Mattia Pascal”, Meis sta a Pascal
come l’essere sta all’apparire, ne ”Il mondo di Arthur Newman” Wallace sta ad
Athur come la vacuità esistenziale sta all’essere.
Da un avvio del film che sembra promettere,
soprattutto per la presenza di un bravo attore come Colin Firth (Premio Oscar 2011 per “Il discorso del
re” di Tom Hooper) e per la presenza della bellissima Emily Blunt (che dà
luminosità al film per la sua esuberante bellezza), ci si accorge che la
sceneggiatura mostra sofferenza e appare incerta e anche vaga in molti tratti
del film.
mercoledì 11 settembre 2013
“L’intrepido” è la favola di un uomo che lotta contro la violenza dei nostri tempi
Titolo:L’intrepido
Regia:
Gianni Amelio
Sceneggiatura:
Gianni Amelio, Davide Lantieri
Produzione:Italia,
2013
Cast:
Antonio Albanese, Alfonso Santagata, Livia Rossi, Sandra Ceccarelli, Gabriele
Rendina,[…]
Dal
vocabolario Treccani "intrepido" (etimologicamente proviene da latino
in-trepidus, non timido), che fa
ricordare quel bellissimo e istruttivo settimanale di fumetti (Liberty Kid,
Bufalo Bill, Roland Eagle, Il Cavaliere ideale, Il principe del sogno, Arturo e
Zoe, ecc.) comparso nelle edicole a metà
degli anni ’50, è colui “che non trema di paura, che
mostra saldezza di cuore e fermezza d’animo soprattutto nel compiere atti di
valore, nell’affrontare un pericolo, nell’iniziare e proseguire in un’azione
anche rischiosa ritenuta un dovere (detto perciò in genere di chi dimostra un
coraggio attivo …” e questo è il carattere che dimostra Antonio Pane (Antonio
Albanese) il protagonista del film “L’intrepido” di Gianni Amelio. Il film,
presentato alla 70^ Mostra del Cinema di Venezia, molto apprezzato dalla stampa
presente tant’è che ha avuto 11 minuti di applausi, è una favola ambientata nel
nostro tempo, a Milano. Esso descrive le vicissitudini un eroe, ovvero di un
uomo comune che dà prova di grande valore e coraggio compiendo azioni
straordinarie dal punto di vista umano e che dà prova di grande generosità e di
spirito di sacrificio. Un uomo che si distacca, appunto per ciò, dagli
stereotipi ricorrenti e che trasmette quei sentimenti profondi che oggi gli
individui stanno perdendo o hanno perso del tutto. Un uomo solo, in definitiva.
Un uomo che lotta con i suoi modi contro la violenza, contro la sopraffazione,
contro gli affari loschi, che sopporta senza dramma il suo status di precario, che
ama il lavoro anche quello non
retribuito, che non si lascia distogliere dal timore, che manifesta una
ricchezza interiore di umanità che oggi è diventata desueta nelle maggior parte
persone, e che mostra un attaccamento a quei valori essenziali umani su cui si
basa il vivere comune. Antonio Pane, 48 anni, divorziato dalla moglie (Sandra
Ceccarelli) vive solo, ha un figlio (Gabriele Rendina) che studia al
Conservatorio e suona il sax, ed è sfruttato da un camorrista (Alfonso
Santagata) che si prende una parte degli emolumenti dei lavori giornalieri o
anche orari, di tutti i tipi e di tutte le taglie, che gli procura. Antonio cerca
di uscire da questo stato di precariato partecipando inutilmente ad un concorso
dove, per caso, conosce una donna (Livia Rossi), una giovane senza lavoro con
la quale fa amicizia. La donna risulta disadattata, disorientata, senza punti
di riferimento nella società in cui vive, la quale non le dà nessuna speranza
di crescita individuale e che ha represso i suoi sogni, base essenziale per
vivere e per dare un senso alla vita. Senza sogni non c’è amore, senza sogni
non c’è vita. Il film viene condotto con una vena pessimistica, e anche tragica,
che porta lo spettatore a riflettere sullo status quo e per il quale costituisce
una finestra che si affaccia sulla società attuale mettendone in risalto tutte
le sue problematiche sociali ed economiche, ma che trasmette, al tempo stesso,
il modo, secondo il regista, di risollevare le sorti degli individui e di dare loro
la capacità di ritornare a sognare .
Gianni Amelio,
calabrese sessantottenne, è un regista che ha sempre fotografato con profondità
e con perspicace acume la condizione umana nella sua amara realtà. Esordisce
con “Colpire al cuore” (1983) sul terrorismo, ritorna con “I ragazzi di via
Panisperna” (1988) sugli scienziati che, con le loro divergenze, hanno dato
impulso alla fisica moderna. Nel 1991 mette in campo “Porte aperte” che si
aggiudicò la nomination all’Oscar 1991 con un grande Gian Maria Volontè e,
l’anno seguente, “Ladro di bambini” (1992). Nel 1994 ritorna con “Lamerica” che
descrive, come un cronista integerrimo, le vicende del popolo albanese
abbagliato dal miraggio italiano. Vince, poi, il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia
1998 con “Così ridevano” sull’emigrazione meridionale al nord. Il suo penultimo
film è “Il primo uomo” (2012) premiato dalla critica internazionale al Festival
del Cinema di Toronto. Ora Amelio ha realizzato “L’intrepido”, presentato al
70° Festival di Venezia. La sceneggiatura ruota attorno al grande Antonio Albanese che, con la sua
bravura, regge magnificamente ed esalta con perspicacia il film per tutta la sua
durata.
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sabato 7 settembre 2013
In “Gorbaciof" sacro e profano si mescolano in un labirinto molto aggrovigliato
Titolo:
Gorbaciof
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Regia: Stefano Incerti
Produzione: Italia, 2010
Cast: Toni Servillo, Hal Yamanouchi, Yang Mi, Geppy
Geijeses, Gaetano Bruno […]
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Ieri sera su Rai3 (6.9.13) è stato trasmesso trasmesso, in prima serata,
il film di Stefano Incerti, un’opera inconsueta nel suo genere sia per la
sceneggiatura che per il contenuto. Il titolo che fa ricordare l’ultimo
presidente sovietico, “Gorbaciof” (2010), è il soprannome del personaggio
principale del film, Pacileo. Soprannome dovuto al fatto che questi porta sulla
fronte una macchia, l’unica sola cosa che lo accomuna con l’illustre
personaggio politico. In questo film (presentato al 66° Festival di Venezia
nella sezione Fuori Concorso), Incerti con il suo stile originale e
inconfondibile, che non trascura neppure i minimi particolari, ricostruisce una storia nell’unica vera grande metropoli,
Napoli, che è una metafora italiana, dove il sacro si mescola con il profano,
dove il malaffare si insinua tra le forze dell’ordine e nei palazzi di
giustizia, dove le regole vengono infrante facilmente, dove la violazione di queste regole è come un
cancro che a poco a poco pervade e
infetta tutto e tutti, dove si uccide per distrazione o per superficialità o
per brio. Un film, questo di Incerti, dove i dialoghi sono affidati di più ai
gesti e alla mimica dei personaggi, ma soprattutto alla mimica di Gorbaciof (Toni
Servillo). Questi è il ragioniere del
carcere di Poggioreale di Napoli, che indossa sempre lo stesso abito e la
stessa camicia color rosso ruggine, un personaggio caratteristico che impersona
un individuo isolato, che può sembrare bizzarro e sguaiato (e in effetti lo
è), un uomo dai modi abitudinari e
violenti, abitudinariamente con la stessa espressione, che parla poco o meglio che
non parla (la prima parola che pronuncia dopo circa mezzora dall’inizio del
film, stranamente è “parola” pronunciata giocando al poker), che ricorre all’illecito
– sottraendo i soldi ai carcerati - per poter giocare al poker e indebitarsi. Gorbaciof è un personaggio, dunque, negativo, come tutti
gli altri che ruotano attorno a lui, ma che viene nobilitato da Incerti nel
momento in cui si innamora di una bellissima donna cinese Lila (Yang Mi), dal
volto candido e angelico, l’unico personaggio positivo che esprime nei suoi
modi quel sentimento puro e sublime che è l’amore. Amore che, però, non troverà
sfogo, quello sfogo promesso e che viene presentato come l’unico spiraglio di
salvezza.
Stefano Incerti diventa regista con il suo primo
film “Il verificatore” (1995), per il quale gli venne aggiudicato il David di
Donatello come migliore regista esordiente. Una premessa che ha dato i suoi
buoni frutti.
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