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lunedì 12 marzo 2012

Nel film docu-fiction “Cesare deve morire”, i fratelli Taviani dicono come la Cultura può migliorare gli uomini.



Titolo: Cesare deve morireRegia: Paolo e Vittorio TavianiMusica: Giuliano Taviani e Carmelo TraviaProduzione: Italia 2012
Cast: Salvatore Striano, Cosimo Rega, Antonio Frasca, Giovanni Arcuri, Juan Dario Sonetti, Rosario Majorana, Vittorio Parrella, Vincenzo Gallo, Francesco Carusone, Gennaro Solito, […]

Il film di Paolo e Vittorio TavianiCesare deve morire”, che è stato premiato con l'Orso d'Oro al Festival di Berlino 2012, è un docu-fiction tratto liberamente dalla tragedia shakesperiana “Giulio Cesare”, girato tra i corridoi, le celle e il cortile del carcere di Rebibbia, e messo in scena nel piccolo teatro interno al carcere. I personaggi del dramma sono stati affidati ad alcuni detenuti, attori all’uopo selezionati, che hanno recitato con i propri dialetti di appartenenza, il romanesco, il napoletano e il siciliano per rendere ancor più sciolta la loro inconsueta prestazione. Detenuti che secondo i due registi sono “persone che portano con sé delle colpe, ma che sono e restano sempre degli uomini”, e che, partecipando alla realizzazione di questo film in prima persona, hanno dato quel vigore, perduto con la privazione della libertà, alla loro sfortunata esistenza. Scelta originale e intelligente questa dei superlativi registi, che è stata utile per far esprimere a ogni detenuto la propria personalità sulla base dell’esperienza personale e farlo avvicinare pian piano alla cultura, senza costringerlo ad usare la lingua italiana che non gli avrebbe fatto sicuramente emergere e sfolgorare l’umanità latente. È come se la recitazione in “Cesare deve morire” per ogni detenuto fosse stata una trasferta verso la riabilitazione, verso il riscatto che la società non è riuscita a concedergli. Salvatore Striano è stato eccezionale nell’interpretare, indossandone le vesti e la maschera, la figura di Bruto, artefice della congiura che nel pugnalare, assieme agli altri congiurati, Cesare (ruolo interpretato da un altro detenuto, Giovanni Arcuri la cui prestanza fisica ben si è adattata al personaggio), mi ha fatto ritornare alla mente i tempi del liceo quando tradussi la frase tutta in vocativo “Quoque te, Brute, fili mi”, “Anche tu, o Bruto, figlio mio”, che Cesare dice morente guardando il suo figlio adottivo Bruto. La potenza interpretativa di Striano è stata talmente straordinaria e vigorosa che ne ha messo in risalto il pathos e l’innata capacità gestuale e recitativa inconsapevolmente posseduti.
Ogni azione del film ed ogni frase sono state ben dosate. Soprattutto quella frase detta alla fine dal detenuto che ha interpretato Cassio "Da quando ho conosciuto l'Arte, questa cella è diventata una prigione" è considerevole ed eloquente, in quanto l’Arte riesce a far comprendere ai detenuti, che hanno recitato in questo film, cosa sia la libertà perché ha contribuito a far emergere tutta quell’umanità che è dentro ognuno di loro e li ha resi capaci di saper “leggere” la realtà, in cui vivono o in cui sono vissuti, senza veli. Quella frase, secondo il mio punto di vista, è anche una metafora riferita a chiunque, anche a chi vive normalmente in libertà, perché soltanto la Cultura permette ad ogni uomo di interiorizzare l’Arte che gli consente di “liberarsi” dai condizionamenti esterni e dall’omologazione sociale che, tra l’altro, creano in lui, tramite i media, false concezioni ed errati comportamenti che lo ingabbiano irreversibilmente in un contesto da cui è difficile uscire.

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